Come si articola nei vostri spettacoli il rapporto tra immagine e teatro, tra apparato visivo e sostanza teatrale?
In un certo senso nei nostri spettacoli non c’è sostanza teatrale. E non è un problema che mi pongo. Io mi sono inserita nel contesto teatrale perché penso che in questo momento nelle arti in generale sia difficile il live, ciò che accade dal vivo. La cosa che ci interessa è il rapporto con la realtà, quello che sta accadendo adesso. Non ci aspettiamo di ritrovarci di fronte a un pubblico teatrale, ma di fronte a gente lucida. Quello che ci interessa è costruire un’immagine che strida con la realtà, che non possa esistere, e che altrimenti sia bizzarra, o stupida, o assurda. Gli spettacoli nascono da visioni, che sono, lo sappiamo benissimo, prodotte dal nostro cosciente. Però io non voglio mettere in scena la realtà. Voglio tendere a qualcosa che non esiste, che non si vede, che non può essere. E per fare questo serve il live! L’immagine da sé non basta.
È forse l’esplorazione di altri circuiti artistici che vi manca? Altrimenti come spieghi il fatto che non è teatro ma lo fate?
Ecco, non so se a noi mancano altri circuiti, o se il teatro reale, di adesso, non può accettare un teatro come il nostro, o può accettarlo solo in parte o ancora dire che non è teatro. Di fatto, per rispondere a questa domanda, direi che negare una cosa è già averci a che fare. Quando a Roma abbiamo presentato Avvisaglie, una cara conoscente ci disse “Questa è performance”. Io e Nicola abbiamo preso una posizione e abbiamo detto: “No, questo è teatro”. Ed era così. Questo non vuol dire che noi siamo pronti ad affrontare un pubblico teatrale, una situazione teatrale. Nell’arte contemporanea, allo stesso tempo, c’è un interesse verso Cosmesi. Però non ci sono le condizioni: le gallerie magari hanno dei soffitti un po’ bassi, non si può far pagare un biglietto. Ci siamo effettivamente scelti una strada un po’ difficile, dopo sei anni ce ne siamo accorti.
Partite dal dispositivo, dall’idea di spazio, che costituiscono per voi una protoregia. Che valore assume la ricerca spaziale nella vostra poetica?
Avvisaglie è stato rivelatorio. Abbiamo costruito una stanza reale ma inadatta, precisa ma senza uscite, con le pareti di polistirolo. Tutto il discorso registico era al limite su quanto è reale, quanto è finto, che cosa posso e non posso fare. Abbiamo capito che una realtà contenuta dentro quell’interno poteva diventare una finzione. Ci abbiamo lavorato per tre anni e abbiamo capito che, nella misura in cui non ci interessava fare una prova fuori dalla struttura, quello era teatro. Quello era il teatro. Mi spengo in assenza di mezzi è nato da un concetto che ci ha portato alla perdita dello spazio. Se prima il mio teatro erano una scatola bianca o la struttura di uno stand, come per Prove di condizionamento, ci siamo ritrovati senza teatro e quindi senza possibilità di visione.
Come si inseriscono nel vostro percorso i due progetti più piccoli della Prima donna e di Cumulonembi? Qualcuno potrebbe pensare che i Cosmesi non avendo la possibilità di creare il proprio teatro, come dichiara Mi spengo in assenza di mezzi, realizzano cose più piccole, più praticabili.
No. La nostra è una scelta politica. Io ho cento e voglio dare duecento. Non me ne frega niente se non c’è tempo, uno spazio, del denaro. Io sono stanca di vedere degli arresi che fanno delle cose piccole perché non c’è la possibilità di farne una grande. Da qui parte il mio lavoro. Cumulonembi e La prima donna mi interessano moltissimo nella misura in cui sono due corti, due trailer di come lavoriamo e come vogliamo lavorare. Io come pubblico sono stata stanca, perché spesso non ho visto il desiderio di invenzione, di donarsi, aprire l’immaginazione, buttare via tutto. Non bisogna cercare sempre la comodità. Non bisogna cercare sempre il bene, il bello. Anche se noi lo facciamo: siamo degli esteti, dei meticolosini. Questo non vuol dire non aver cura dello spettatore. Significa aver cura di sé, del proprio lavoro.
Significa aver cura dello spettatore, in realtà, perché questo significa non considerare lo spettatore un deficiente.
Esatto, e questo vale anche per Cumulonembi, che fa ridere perché è nato per questo. È inutile stare qui a guardare, pensare “Ma dove mi vuole portare? Che cosa mi vuole dire?” No, è quello che è. Lucido! Guarda! Io mi stupisco che alla fine della performance nessuno venga mai ad aprire la porta.