Come si è evoluto il rapporto con il testo da Kostia, Namoro, Desert-Inn e infine Tracce verso il nulla?
Marco Valerio Amico: Risulta difficile per il momento fare un bilancio del lavoro svolto sulla parola, perchè il testo di Tracce è ancora in fase di costruzione. Stiamo cercando di allontanarci dal testo per cercare di far emergere una parola che sia proposta interna al gruppo e abbia le stesse valenza del segno sonoro e corporeo.
Rhuena Bracci: Siamo partiti dal testo portatore di una narrazione con il Gabbiano di Cechov per Kostia, da cui abbiamo estrapolato parti senza nostre interpolazioni. In Namoro ci siamo affidati a diversi autori tra cui Barthes, Pessoa, Genet e Leconte, una mescolanza di parti di testo che hanno subito una scomposizione grammaticale tale da permettere alla parola di essere usata come suono per attivare improbabile incidenze non desiderate fra scena e testo.
Desert-Inn era strutturato con una serie di indizi tratti da I miei luoghi oscuri di Ellroy, indizi che sono stati scomposti e ricomposti in tempo reale per assonanza non sonora ma di immagine.
In Tracce verso il nulla il tentativo che proponiamo è quello di escludere quasi completamente la parola semanticamente e grammaticalmente riconoscibile creando una composizione di anagrammi che diventa un linguaggio nuovo, altro.
Come è stato il lavoro preparativo di Tracce verso il nulla? Avete lavorato separatamente su parola, corpo e suono?
R.B.: L’imput iniziale prevedeva che l’emissione vocale generasse movimento nel corpo.
M.V.A.: Una parola che fosse azione sonora, un corpo che fosse sempre in azione e mai in figura, e un suono che fosse un’azione continua di spostamento e non più un paesaggio.
La nostra tendenza da Namoro in poi è di lavorare fuori sink fra di noi. Lavorare in solitudine permette ad ognuno di noi di sviluppare un proprio percorso che messo insieme a quello degli altri crei un incidente: lo spettacolo.
Nei vostri spettacoli molti riconoscono rimandi a immagini e stili cinematografici molto connotati. È un modo per creare un base d’incontro con il pubblico, quindi un richiamo voluto o un semplice riverbero del vostro background?
M.V.A.: Penso che più che di immagini cinematografiche si possa parlare di un clima che noi cerchiamo di creare. Indubbiamente crediamo e riconosciamo varie influenze da parte di artisti; pittori, fotografi e musicisti anche meno conosciuti e quindi meno riconoscibili.
R.B.: Ultimamente ci stiamo interrogando sull’aspetto dei rimandi, la verità è che non ci interessa prendere o riproporre un pezzo cinematografico. Infatti alcune cose le abbiamo rischiate sull’onda dell’entusiasmo come la scatola blu in Tracce verso il nulla.
Proviamo a chiarire quali sono questi altri riferimenti?
R.B.: No, non lo riteniamo necessario. Preferiamo che non si vedano i nostri riferimenti perché si tratta di gusti personali e sono, veramente, solo punti da cui ognuno di noi inizia a lavorare. Se si intuiscono significa che lo stimolo non è ancora stato digerito e dobbiamo andare oltre.
L’aspetto dell’anagramma e del linguaggio inventato su cui state lavorando in Tracce verso il nulla ricorda molto il lavoro dei Fanny & Alexander sui linguaggi improbabili, come si differenzia dalla loro ricerca il vostro percorso?
M.V.A.: Credo che il loro percorso sia più volto alla risoluzione del rebus, a noi invece non interessa che l’anagramma sia riconoscibile, anzi vogliamo che non lo sia.
R.B.: È come assistere a uno spettacolo che non è nella tua lingua, in più non esiste la narrazione ma solo il racconto di questi ambienti e personaggi in scena.
M.V.A.: Da poco sto lavorando per creare una lingua che non esiste, così che nessuno possa avere un aggancio mentale, ma solo vedere di fronte a sé dei figuri che creano una situazione, lo spettatore diventa così ospite disagiato di un ambiente in cui qualcosa è già in atto.