All’inizio Avvisaglie di un cedimento strutturale: un linguaggio teatrale intriso di irriverenza scenica e al contempo portato ai suoi estremi di precisione e rappresentazione. Al centro un’attrice-ragazza sola e sorridente, già vista in altri contesti scenici (con Motus per esempio) e anche fuori scena, muoversi molto libera e al contempo imprigionata da un bisogno di contatto estremo col mondo, una bambola spettinata in grado di comunicare con gli oggetti, e forse legata a essi da qualche chimica. Bionda figura femminile dall’eterna aura adolescenziale, come uscita da certi malinconici ritratti del disegno contemporaneo, che sprigiona pure un carattere intimamente rivoluzionario. Qui si è incorniciata in un interno di bianche geometrie al neon, ludico obitorio, navicella spaziale dall’habitat domestico o cella frigorifera imbellettata. E c’è una ricerca di perfezione in quell’unione tra attrice e dispositivo scenico, tra calore e gelo, che fa dello spettacolo un drama-carillon finanche un po’ troppo grazioso.
La domanda di Cosmesi ha certamente origine nella visione e si nutre di smottamenti concettuali: il gruppo è fondato da un artista visivo (Nicola Toffolini) e da un’attrice (Eva Geatti) che trovano giusta dimensione in sfrangiamenti e profane apparizioni tra le quali ricorre un regno bicolore dove il bianco e il rosso, insieme a un’intrinseca luminosità, alludono a uno stato insieme di cupa festa o di attonita emergenza. È certo e indicativo il fatto che nei titoli vengano dichiarati degli stati o imminenti destini, piuttosto che figure e personaggi. Ed è incisivo l’uso della prima persona in dichiarazioni che attraverso immagini ultraparticolari vogliono lanciare icone cosm… iche.
Il congenio che gli artisti del gruppo accendono sembra essere quello di un apparato scenico che si faccia libro dell’oggi – di quei libri dalle cui pagine si ergono strutture di carta a tre dimensioni – e che produca esso stesso il proprio sviluppo teatrale. Una sorta di libro delle meraviglie, che sorprenda e catturi nel raccontare senza parole la paura e il paradosso. La cosa purtroppo non sembra riuscita nel tentativo santarcangiolese di Lo sfarzo nella tempesta, dove la tensostruttura a forma di megafono, vortice, grande orecchio, resta enorme quanto inerme e anche in Mi spengo in assenza di mezzi appare irrisolto il rapporto tra le intenzioni (di denuncia, radicalizzazione, spiazzamento) e un esito che si manifesta prepotente e minaccioso, e anziché aprire il senso dell’azione lo richiude in citazioni sterili eccedendo negli aspetti violenti.
In La prima donna_chi semina vento raccoglie tempesta e in Cumulonembi alla mia porta si scorge una grazia ritrovata che dà vita a un ciclo di piccole azioni tra autocreazione e autodistruzione, raccontando le azioni di un mondo solipsistico: il primo guarda a una donna-nuvola-gallina, pensata come vaporoso monumento, impegnata a generare il proprio uovo. Il secondo guarda una donna in ciabatte e accappatoio, o meglio nei panni della sua fallita aspirazione, che cerca il proprio narcisistico suicidio dentro un auto di lusso. Sembra esserci un luogo doloroso dal quale provengono tutte queste ladies, che non ha forse ancora del tutto trovato la forza per uscire dalla teca di cristallo, ma che ha pur saputo trovare una propria onirica esposizione.