Nanou li seguo da molto. Non con quella tenacia con cui ho guardato le cose di alcuni loro fratelli maggiori, Raffaello Sanzio, le Albe, Valdoca, e poi i Teatri ’90. Oggi è più difficile sfidare il mondo con le proprie concezioni e visioni. Forse si sente il peso del già detto, del già fatto, come mai prima, in questa bolla informativa, creativa, comunicativa. Perfino la ricerca ha un suono stonato, come se fosse una sigla usurata, alla fine della quale non ci aspettiamo di scoprire nulla. Il problema sta forse proprio nell’attesa continua del nuovo, in questo tarlo insinuato dall’avanguardia, necessità derivante dall’asfissia di culture omologate.
Ebbene, i primi lavori che ho visto di Nanou, in qualche Premio Scenario, erano generosi e impudenti. Si vedevano delle belle abilità singole, la volontà di metterle in discussione, di sondare territori sconosciuti, ma anche una grande ingenuità, che generava risultati molto al di sotto dello sforzo impiegato.
Merito loro quello di aver continuato a cercare una lingua, attraverso un lavoro continuo, a tappe, quasi mai, per quanto ne sappia, mirante a produrre lo “spettacolo” da buttare in un ipotetico (molto ipotetico) circuito. Piuttosto cercavano una “proprietà”, loro, originale, di mezzi, di concezioni, di visioni. Non so se ci sono arrivati. Ma chi si mette in cammino con questo spirito è già in una buona direzione. Tra le voci nuove, di un panorama che prova a descrivere la solitudine, la glaciazione nella quale siamo immersi, Nanou possiede una nota particolare. Nell’autoreferenzialità minoritaria delle nuove formazioni, sempre esigue nel numero, innamorate più dell’anatomo-patologia che dell’emozione, sulla strada della ricerca di un pensiero sotto il bombardamento delle immagini, rappresenta la certezza del rigore, dell’insoddisfazione, della necessità di chiusura per trovarsi. Nella danza acrobatica di Rhuena Bracci, nel corpo pensato di Marco Valerio Amico, nel distillato degli elementi visivi e sonori del dispositivo scenico. Come nell’ultimo spettacolo. Che ho descritto, altrove, nel modo che segue.
Uno spazio buio. Riverberi bluastri. Due corpi appesi al rumore di un motore o di una goccia. Due ectoplasmi prendono forma sotto la luce di una pila, nel freddo di un neon, sopra il raggio di una scatola blu. Il Gruppo Nanou è uno degli esponenti di un’onda giovanile che disegna spettacoli con i corpi, i suoni, i percorsi e le pose, al di là, ormai, della danza e del teatro, in una zona grigia di attesa, di labirintica indecisione, di oppressione. Questo studio, visto a Santarcangelo e ad Alfonsine, ha il nome significativo di Tracce verso il nulla. Influenzato dalle atmosfere di David Lynch, si definisce attraverso i denudamenti parziali di corpi tesi allo spasimo, gli sguardi e le contorsioni, le urla ferine e i passi felpati, in un indifferente cercarsi per rendere tempo lo spazio e spazio il tempo. Slitta da un dimensione all’altra per trovare, romanticamente, un luogo possibile. Scena generazionale, immersa in un immaginario preconfezionato, mostra una sua forza rinunciataria, fatta di attese, di scarti e scatti verso l’esplosione, verso il rimpianto di una impossibile matematica.