Modificare le relazioni quotidiane è uno dei possibili criteri per dare una definizione della festa, luogo “altro”, “non luogo” della quotidianità, e persino utopia. Attraverso l’esperienza delle avanguardie teatrali degli anni Settanta, la transizione politica è stato il momento di rivendicazione della festa. Si può pertanto cogliere un punto di contatto tra il teatro e il mondo festivo, entrambi territori “utopici”, che si svincolano dai codici espressivi della quotidianità e della realtà, per crearne nuovi. Entrambi hanno il compito di superare la barriera dell’istituzione-regola e gridare al mondo la sovversione e l’immaginazione come uniche forme possibili riconosciute all’umano. Questo succedeva nei gloriosi e felicitanti anni Settanta, quando c’era un “nemico” di cui ridere, cercando di proporre altre vie. Oggi la festa o non c’è più o è ovunque. Eppure non perde centralità, anche se non è più strumento d’attacco, ma diventa elemento conturbante, a volte silenzioso, quasi nascosto tra le righe. Forse proprio perché non si combatte più un nemico, ma si cerca di dare sfogo a un pellegrino e spinoso disagio. Ed ecco che ci si ritrova in una condizione di male incurabile (e spesso persino coltivato), in cui l’elemento dell’esagerazione festiva, della sfilata, del gioco, pur avendo forse perso uno statuto proprio, è diventato dilagante: vediamone alcuni, partendo dalle feste che abitano oggi le superfici teatrali.
La “Leben” del Teatro delle Albe è una società del futuro prossimo che commercia ragazze in valigia. Ogni assemblea degli azionisti è occasione per festeggiare, per brindare all'aumento del fatturato (niente più prostitute, ognuno con la sua ragazza nel trolley a disposizione!). In platea ci siamo noi, gli azionisti della Leben. In scena loro, i dirigenti. Volano tappi di champagne, coriandoli, si balla, ci si ubriaca. Il divertimento di Leben (2006) ha i colori e i ritmi del ghiaccio.
In festa (2005) è un lavoro della compagnia Menoventi. Due coniugi attendono gli invitati, ma al loro posto arrivano manichini a pezzi ( gambe, scarpe, un braccio). Si farà o no la festa? Sul fondo sta un semaforo, che con i suoi tre colori sembra impartire muti ordini. Partono i Radiohead, la festa inizia: qui si spaccano piatti, ci si accapiglia, si cade a terra, si suda. Il mondo e il tempo sono fuori luogo.
Invece in un teatro troviamo una compagnia di detenuti attori. I pescecani (2003) sono frammenti da Brecht, sono biografie di reclusi urlate al microfono, sono canzoni di banditi (gli attori, ma anche Mackie Messer di Brecht e Kurt Weill) accompagnate dall'orchestra. Gli attori/detenuti sono fuori, ma sono anche dentro al teatro. Prima di uscire cantiamo tutti “Sono fuori dal tunnel” di Caparezza. Chi sta dentro e chi fuori, in questa festa?
Il silenzio (2000) di Pippo Delbono ci dice di quegli attimi “vuoti” poco dopo un crollo. Come il terremoto che devastò Gibellina, in Sicilia, nel '68. In quel vuoto ci sono forse i germogli del futuro? Una voce fuori campo invita tutti a fare largo. Dice di lasciare sgombro il palco, ricoperto di sabbia. Sta arrivando. Entra. Eccola, la madonna! E' un attore altissimo sui trampoli, seguito da barboni, bambini down, clown. Ecco, anche noi è come se fossimo con loro in processione. Forse è una festa che non abbiamo cercato, non ci siamo “andati” ma “ci è data”, ci svuota e insieme ci rende presenti a noi stessi. Come una folata improvvisa: si brucia nell’istante e poi ritorna, nei pensieri.