In redazione ci hanno raggiunto Nicola Toffolini ed Eva Geatti di Cosmesi con Enrico Castellani di Babilonia Teatri. Con loro inauguriamo "Nero su bianco live", una rubrica che cerca di interrogare le opere e le biografie attraverso una scrittura che nasce dal dialogo. Non si tratta di interviste ma di un tempo dilatato per addentrarci in quella zona che più ci interessa, dove si intrecciano le forme della scena e le contraddizioni della realtà.
L'eterno ritorno della fine. L'impossibilità di uscire da un vicolo cieco, di liberarsi da un senso costante, insostenibile, di una fine imminente.
Eva Geatti - Cosmesi: In NEROep mi sento padrona della fine, sta a me deciderla come se avessi le pistole cariche sul tavolo. È una questione che non si risolve mai. Forse questa è la salvezza, sapere che sta a me decidere la fine.
Enrico Castellani - Babilonia Teatri: Noi non identifichiamo la fine con la salvezza. In This Is The End My Only Friend The End la fine è la morte, individuata come accadimento con cui ci si confronta raramente. Come la nascita, è oggi medicalizzata a tal punto che non la si vede mai, relegata negli ospedali, luoghi isolati ed estranei alla vita quotidiana. Questo lavoro è un modo di confrontarsi, senza intenzione di giudizio, con l'inquietudine che la rimozione della morte porta con sé. Il tutto è partito da un evento autobiografico, la malattia di una persona cara, che ha scatenato in noi una serie di pensieri inattesi.
Nicola Toffolini - Cosmesi: Il mio personale rapporto con la fine è già metabolizzato. A livello sociale, individuale e culturale ragiono quotidianamente sulla fine, che sia la mia, del mio lavoro o del senso di quello che faccio. Sono totalmente immerso nella questione. Viviamo in un tempo in cui ci si sente in scacco: sono finite le soluzioni e l'unico modo che si ha per uscirne è quello di essere padroni della propria fine. Quando Cosmesi non avrà più nulla di significativo da dire dovrà cessare di esistere.
EG: Forse è proprio la biografia che dà una direzione rispetto a un tema così grande.
EC: Noi partiamo sempre da qualcosa di molto vicino, che avvertiamo come allargato rispetto a un sentire diffuso, accettato inconsciamente come norma. La nostra generazione non è nichilista come si dice, altrimenti arriverebbe a prendere posizioni radicali.
Dopo la fine, o durante la fine. Che fare per pensare a un dopo.
EG: A una fine segue sempre un'altra fine, come nel video di NEROep. Finché io sento di non poggiare su qualcosa di definitivo, che sia nel lavoro o nella vita, proseguo, fine dopo fine. Non c'è un crescendo né un decrescendo, ma non nel senso che tutto si perpetua, perché nel percorso ci sono cambiamenti di stato. Quando ci sarà la vera fine, io probabilmente non ci sarò. Voglio dire che nella vita si tenta un percorso, ma quando questo ha termine non è più tuo, non ti riguarda più.
EC: A mio avviso, il fatto che non ci siano soluzioni potrebbe essere un buon punto di partenza. Se conosciamo quello che siamo, forse qualcosa possiamo costruire.
Circondarsi di piccole bande di "prossimi", per reagire all'isolamento. Oppure aprire al fuori, incontrando attori tramite un bando su youtube.
NT: Noi avvertiamo un senso di isolamento, di scollamento da tutto il resto. Per certi versi non è un ragionamento nobile, ma per me è necessario. L'unico dato che per noi costituisce un appiglio è avere dei punti fermi nelle persone con cui lavoriamo, con cui ci troviamo e ci riconosciamo.
EG: Sono dieci anni che collaboriamo con amici. È bello lavorare con dei professionisti, ma è freddo, non è "casa". Non abbiamo mai trovato qualcuno tramite un'audizione o perché lo stavamo cercando.
NT: Non ci servono professionisti, ma persone. È strano come gli spettacoli nascano da queste sinergie, in cui le provocazioni lasciano dei residui che diventano una specie di traccia ideale da uno spettacolo all'altro.
EC: Noi non facciamo un lavoro di sondaggio. Proviamo a prendere consapevolezza di quello che è l'immaginario collettivo. Indaghiamo ciò che ci sta intorno avviene nel chiuso di una stanza, perché prima di tutto osserviamo noi stessi e quel che ci succede rispetto all'esterno. Il nostro obiettivo è continuare a cercare stimoli diversi. Per questo ultimo lavoro abbiamo scelto dieci persone: incontrarle è stato un arricchimento per il discorso che vogliamo portare avanti. La provocazione con cui ci confrontiamo di continuo sta nel cercare sempre qualcosa di nuovo e di diverso che contamini il nostro percorso, sebbene ci siano una serie di persone che consideriamo punti di riferimento fissi.
Fine del teatro e dei suoi linguaggi. L'urgenza di provare a essere reattivi.
EC: Noi abbiamo provato a costruire un linguaggio che fosse nostro fino in fondo, e che ci permettesse di affrontare l'oggi in maniera reattiva. Diversamente da altri canali, altre forme preconfezionate che secondo noi ora non riescono a parlare, il nostro proposito è quello di raggiungere una comunicazione possibile, una condivisione reale. Per moltissimi anni si è combattuta una battaglia contro il linguaggio teatrale, basandosi sul pregiudizio che la parola a teatro fosse un problema costitutivo. Noi abbiamo deciso di bypassare la questione ricercando una forma personale che contenesse anche la parola. Siamo convinti del fatto che stiamo facendo teatro, e per noi non c'è in corso alcuna battaglia con quella forma comunemente definita rappresentazione.
EG: Questo lo condivido: anche noi siamo convinti di fare teatro, perché è in sé un modo per stare dentro la società, anche se la società in questo momento non se ne accorge. Il teatro permette di pensare e di investire nel pensiero, continuamente. In altre discipline, che pure frequentiamo, la questione è differente, più distaccata: nell'arte contemporanea componi e prepari un oggetto da esporre, un prodotto che vive una relazione con il pubblico solo nel tempo reale della fruizione. Il teatro invece è una battaglia che non si interrompe, una guerra, un pubblico di tutti contro tutti, di attori contro tecnici e così via... è "boom"!
NT: È proprio per questo un elemento della vita! Il problema del fare arte, in particolare quella contemporanea, sta nel fatto che può rimanere un soliloquio: io propongo, ma poi non so quanto venga raccolto; a teatro invece so che lo spettatore si scontra sempre e comunque con l'opera. Per me tutto ciò è molto più interessante del resto, perché anche se dovesse esserci uno scontro frontale con tale esperienza, verrà percepita comunque come una scossa, un'alterità rispetto alla routine del quotidiano che passa senza essere percepito. Ti cali in una dimensione che per 20, 30, 50 minuti corrisponde a staccarsi dalla realtà e a vivere una sorta di autosufficienza, un momento a sé stante. Io conservo il ricordo di alcuni spettacoli che, dal momento in cui li ho visti, mi hanno segnato. Ingenuamente penso che possa capitare anche a qualcun altro.
La fine del pubblico: non ci si può rivolgere a tutti, si devono aprire porte.
EG: Credo che sia vero che il pubblico possa avere una sua "fine", ma che possa anche ricominciare. Se finisce un tipo di pubblico, allora apriamo le porte ad altri. Si può! Nelle Pro-loco del Friuli abbiamo presentato spettacoli non diversi da quello di Santarcangelo: alla fine della serata, ci ha ringraziato anche chi ha detto di non aver capito, solo perché sapeva che non avrebbe più visto niente di simile nella sua vita. Il pubblico arriva come un ufo e prende, c'è una fame.
EC: Però è anche vero che, con altri mezzi e in altri luoghi, quella provocazione potrebbe arrivare a un numero ancora maggiore di persone, ed è importante perché ormai non ci si stupisce più di niente. Noi vorremmo andare in tv! a Sanremo! Per noi saper parlare con tutti è fondamentale. Il lavoro è pensato a seconda delle persone che avremo davanti: che si tratti di uno spettacolo per bambini, per la televisione o per il palcoscenico, pensiamo ogni volta a cosa dire e come dirlo. Se non fosse così non avrebbe senso fare tutto ciò per un pubblico, sarebbe solo un nostro urlo liberatorio. Invece il teatro per noi non è esclusivo, cerchiamo sempre qualcuno che ascolterà, vedrà e sfrutterà quello che proponiamo. Per esempio, Made in Italy l'abbiamo replicato in tutte le situazioni, in piazza, con i bambini... e abbiamo capito che ha senso portare questi spettacoli proprio nei luoghi in cui possono diventare grandi provocazioni. D'altro canto, replicare ovunque e con un pubblico diverso è importante perché ci aiuta a prendere maggiore coscienza della scelta fatta, di cosa abbiamo in mano e di cosa vorremo fare dopo. Noi non ce la sentiamo di formulare un giudizio a priori verso il pubblico.
NT: Io non ce la faccio a ragionare in senso di massa, perché non ho una missione o uno scopo educativo. Non penso che i valori condivisi siano migliori dei valori non condivisi, semmai posso provocare, tentare di lanciare segnali, e se rimbalzano è fantastico. Instaurare un dialogo sarebbe troppo, forse non è una cosa del tutto positiva il fatto che tante persone si interessino al teatro, come non è del tutto negativa la fine del pubblico. In realtà il discorso è un po' più complesso: non c'è un pubblico per un certo tipo di teatro. Io non posso scendere a patti per fare avanspettacolo in un teatro stabile. Non mi pongo come un problema la questione del pubblico: non considero un segnale negativo la mancanza di pubblico. Non è detto che un messaggio debba essere per forza indirizzato a tutti. Non mi interessa sfondare, lanciare un'idea è per me già un senso raggiunto.
a cura di Nero su Bianco, Martina Melandri