Al festival Contemporanea 07 di Prato, il teatro emergente italiano trova i suoi spazi nei casermoni degli Ex Macelli. Undici compagnie di più o meno recente formazione si succedono con spettacoli della lunghezza massima di quindici minuti: una prova di sintesi non indifferente. Molti studi dunque, che equivalgono ad altrettanti percorsi in divenire e in prospettiva mutevoli senza soluzione di continuità. Come lo studio di un progetto (artistico, architettonico, critico, curatoriale) è essenzialmente il primo stadio di ricerca, questi eventi vanno contestualizzati per l’obiettivo che si pongono: offrire al pubblico il risultato parziale di una riflessione estetica e scenica. Lo spettatore si trova ad assistere a una rappresentazione frammentaria per necessità e impegnativa per volontà. Eccoci allora a percorrere tre diverse linee all’interno degli spazi dei macelli, accompagnati come attraverso una processione rituale davanti a tableaux vivants, apparentemente slegati tra loro, profondamente organici perché diverse facce della stessa generazione.
Nell’approccio a qualsiasi opera d’arte – vuoi di arte visiva, di lettere, di teatro, di cinema, di musica – lo spirito critico deve essere animato dalla capacità di esserne sedotto. Ciò avviene generalmente per le sue forme più spettacolari, secondo una degenerazione a standardizzazione dei sentimenti cui la società contemporanea ci ha abituato. Lo stupore per l’oggetto meraviglioso fatto per piacere, la sostituzione della seduzione con la fascinazione, l’incapacità di stabilire un limite tra i desideri reali e virtuali, sono tutti sintomi del nostro sentire cui il viaggio critico deve sottoporsi e spurgarsi. Cercare un’avventura che interroghi, alimenti il dubbio, stimoli la ricerca.
Primo dubbio: teatro come performance, performance come teatro. È il primo cortocircuito che avviene nello spettatore abituato alle sale dai grandi lampadari. La modernità ci ha mostrato come l’arte visiva si sia appropriata dei codici e dei segni del teatro per cercare una nuova utopia sperimentale per se stessa. Il teatro entra nelle gallerie, nei capannoni, nei musei, nelle strade come esperienza estetica e partecipativa; il teatro irrompe nella sfera del fruitore, accecandolo o coinvolgendolo attivamente, frantumando il filtro tra palco e platea. La performance diventa un’esperienza condivisa tra attore e pubblico che la natura stessa della fruizione di Alveare Off suggerisce: le maschere accompagnano lungo le diverse stazioni il pubblico che, in piedi o seduto per terra in una dimensione informale, esperisce ritualmente. Ma qui si avverte una sorta di scompenso, una sensazione di ibridazione facile e giocosa in cui difficile è distinguere dove arriva l’intenzione degli attori e dei registi e dove invece si tratta di casualità – anche se più o meno voluta. La performance appare sempre come garanzia di sperimentazione e avanguardia nei confronti del pubblico, mentre in realtà la sua forza risiede nell’estrema sintesi dei suoi segni, sintesi che a volte avviene troppo forzata, a volte elasticizzata.
Secondo dubbio: la questione dell’assenza. Dell’assurdità della condizione umana, probabilmente. Tolto che l’assenza sia una – se non la – molla creativa dell’artista, la nostra epoca ci costringe a confrontarci con essa anche dal punto di vista materiale. L’assenza viene purtroppo percepita anche da coloro che, non propriamente intellettuali, vivono una condizione di precaria esistenza ogni mattino, è una sensazione diffusa in grandi strati della società, è una consapevolezza il sentirsi non-adeguati, non-partecipi, non-efficienti. Il panorama sembra quello assordante della parodia del moderno tipico della postmodernità, dove codici e strutture non fanno che ricalcare le esperienze passate senza memoria. Penso per esempio a Show di Antonio Tagliarini, che gioca con i non-segni/sogni del mondo dello spettacolo per stravolgerne il senso e creare un one-man-non-show. Il ricordo va a Maurizio Cattelan, artista capace di trasformare la debolezza, il fallimento, l’assenza di idee in opera d’arte. Come quando, in occasione della sua prima personale a New York, sfiduciato e frustrato dal continuo rifiuto di ogni sua idea, ben pensò di installare un asino vivo dentro gli spazi asettici di una galleria. L’espressione dell’assenza sembra rappresentare oggi un patrimonio fin troppo condiviso dalla società.
Terzo dubbio: il gesto. Le performances più emozionanti sono quelle dove protagonista della nuda scena è il gesto, particolarmente nella declinazione della danza. Alessandra Fazzino, assieme a Giuseppe Bonanno, dà vita alla tragedia classica di Oreste e Clitemnestra attraverso la concentrazione dell’angoscia e della colpa dell’uomo in gesti di danza senza melodia, senza sovrastrutture che sviino l’occhio e gli altri sensi dal punctum della loro danza di morte. I respiri, le luci radenti, il suono dei movimenti, il dischiudersi di due corpi all’estasi performativa concorrono a creare quell’unicum che a volte chiamiamo poiesis. Il gesto è centrale anche nel lavoro dei Le-gami, in una variante onanistica e concettuale. Il gesto viene preso a strumento di conoscenza dello spazio, lo spettatore diventa la quarta parete entro cui il performer tenta di dare un senso al suo movimento e al suo essere. Un senso dislocato dalla realtà e dalla consuetudine della quotidianità che si amplifica nel momento finale, quando alla musica incalzante corrispondono la stasi, il riposo, la riflessione. Gesto e non testo: la parola, nella breve apparizione di quindici minuti, non riesce ad avere la stessa capacità incisiva di un passo, di un movimento, di uno sguardo.
Difficile trarre una sintesi da questa esperienza: il teatro emergente presentato a Prato vive in un’oscillazione tra l’ansia ironica e parodica della postmodernità e l’ansia utopistica e sintetica della modernità. Due facce, due categorie erroneamente giudicate consequenziali nella nostra storiografia, ma archetipiche nella complessità del mondo contemporaneo. Due modi di percepire e vedere il mondo che si innestano inevitabilmente nel nostro pensare e, di conseguenza, nel nostro creare. Un nodo da risolvere, non da sfuggire.
Forse dopo tanto assentare/assentarsi è venuto il momento di definire/definirsi.
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