Non ci sono frontiere tra la coreografia,
il fatto di danzare e quello di vivere;
il gesto è bello soltanto
se motivato dalla verità interiore
(Carolyn Carlson)
Si tratta di punti di vista, linguaggi possibili, interrogativi che il Festival ha scelto di presentare nella sua quinta edizione. Si comincia con l'insolito connubio italo-francese del Teatro delle Ariette e del Théatre de Chambre, passando dal lavoro solitario del giapponese Hiroaki Umeda per finire con la poesia di Raffaella Giordano e con l’esplosiva coreografia della danese Mette Ingvartsen. Artisti che non lasciano indifferenti, che lavorano sui diversi elementi della scena come artigiani all’opera, utilizzando talvolta strumenti più rudimentali, come nel caso del Teatro delle Ariette, oppure dando vita a sofisticate macchine teatrali, come nel caso del coreografo giapponese Hiroaki Umeda. Se quest’ultimo, in Duo, sceglie di mantenere una distanza fisica e reale con il pubblico, per eventualmente riavvicinarlo e sconcertarlo con l’uso di avanzati mezzi tecnologici, Paola Berselli e Stefano Pasquini, fondatori della compagnia bolognese e protagonisti del progetto Dans ma Maison (conte de la vie ordinaire) – Episodio 2 Italie, in collaborazione con il Théatre de Chambre, scelgono un’intimità che incanta. Lo sguardo vigile degli spettatori, che circondano la “magica” scatola di legno in cui si svolge l’azione teatrale, è qui particolarmente vicino. Nel microcosmo costruito in collaborazione con il Théâtre de Chambre, la giornata trascorre tranquilla. Sembra una storia d’altri tempi, di uomini e donne capaci di incantarsi davanti a un fiore che sboccia o un nuovo giorno che inizia. La regia di Christophe Piret racconta di una casa lontana, di una cucina in cui si preparano le tigelle per i vicini di casa, di un caldo focolare domestico. Tutto appare in miniatura, dentro un ambiente in apparenza un po’ claustrofobico: gli ingranaggi tecnici rivelano scale di legno che consentono gli spostamenti tra il piano terra e l’area rialzata, botole sotterranee e un pozzo d’acqua. C’è molta cura. Nei gesti e nel linguaggio, nel misurare le azioni e le parole. I protagonisti si mostrano per quello che sono e i valori in cui credono. A tratti sembra di guardare dal buco di una serratura, da cui qualcosa è solo intravisto. Gli odori sono forti, riportano in campagna, dove l’erba è ormai ingiallita ma il cuore ha voglia di emozionarsi.
Emozioni che a Prato volano alte anche per Raffaella Giordano e i suoi interpreti, sei attori, che con Cuocere il mondo lasciano un’impronta particolarmente lacerata, di un viaggio compiuto, tra i silenzi e i vuoti, tra la lentezza e lo sfaldamento, e ricordano, secondo le parole della coreografa, che «un singolo gesto custodisce un miracolo di essenza». Appaiono come anime perse, vaganti, tra le pieghe di un deserto inaridito. Corpi raggelati e silenziosi, ricoperti da brandelli di vita e riscaldati dalla purezza dell’anima. Anime che insieme al corpo si fanno presenza, morte e resurrezione. Racconta Giordano, «Ci siamo avvicinati all’episodio dell’Ultima Cena, nella dinamica dell’evento rappresentata dal dipinto di Leonardo. Abbiamo attraversato un silenzio ed un tempo preziosi, lasciando che l’intreccio dei nostri cuori svelasse le tracce da seguire e il sentiero da sostenere». Il cuore della Giordano è “trafitto” e i suoi passi solcano il terreno, per poi incontrare lo spettatore nell’immagine finale dello spettacolo: tutti gli interpreti si mettono in ascolto, sedendosi a semicerchio, rivolti verso la platea. Mantiene delicatamente la distanza, questa donna matura, in apparenza particolarmente fragile, che non si lascia scivolare nulla addosso, ma al contrario sembra portare con sé, o meglio trascinare, il fardello di una riflessione profonda.
La distesa di sabbia può però germogliare, come succede in Why we love action, della coreografa ventisettenne Mette Ingvartsen. Su una scena completamente verdeggiante, magnetismo e seduzione non si distinguono più. È un susseguirsi di scene bulimiche, eccessive e irrefrenabili, in cui si respira una spensierata giovinezza e, a tratti, un’ingenua impulsività, che travalicano lo spazio scenico per giungere inermi su un terreno dal contrassegno cinematografico. La vitalità della coreografa danese, che fa ridere, combattere e piangere i suoi danzatori, buca la quarta parete per lasciare fluire un’energia che addirittura raddoppia e rasenta l’effetto del cinema d’azione, facendo del corpo in movimento, in quanto oggetto di fascino e seduzione, l’elemento primario. Si rivolge allo studio del cambiamento di prospettiva e di percezione del corpo con differenti inquadrature rappresentative, non tanto per disorientare lo sguardo quanto piuttosto per esplorare varie strategie di approccio alla coreografia. Capelli rossi e aria sbarazzina, questa giovane allieva di P.A.R.T.S. (The Performing Arts Research and Training Studios - scuola diretta dalla coreografa belga Anne Teresa De Keersmaeker), utilizza una scena concettuale per dare risalto alla fisicità dei danzatori e veste di humour e noir corpi perfettamente allenati e malleabili.
Forza e debolezza sembrano essere le parole chiave che in qualche modo accomunano la Ingvartsen agli altri coreografi ospiti a Contemporanea 07. Non importa quanto il mondo rappresentato sia reale o virtuale o surreale, quanto il gioco si faccia più o meno duro, quanto il pubblico venga intimidito o rassicurato, perché resta una certezza che mette in relazione anche i lavori apparentemente più discordanti, il fatto di assistere a un atto vero e meditato, per quanto possa diventare astratto e sminuzzato nel suo stesso farsi. Un atto che vive nel momento in cui si compie ma porta con sé un’emozione più grande, quella che ogni artista cerca in se stesso per trasmetterla in chi guarda. Come ci ricorda Dominique Dupuy, «Credo di aver scelto la danza perché amo profondamente trovarmi sulla scena. L'occhio dello spettatore è una delle componenti della danza. Gli dà verità di esistenza. Il danzatore dovrebbe sempre tener presente questo, non solo quando è in scena, ma anche nel lavoro preparatorio. La sensazione di essere guardati fa uscire la danza da una meccanica corporale e genera uno stato del corpo propizio alla verità poetica». Una condizione di danzatore, questa, che dovrebbe valere per chiunque faccia delle arti della scena la propria ragione di vita.
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