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APPROFONDIMENTI, EDITORIALI, COMMENTI > Il contemporaneo che verra' di Romeo Castellucci
Che cos’è il contemporaneo per te?
Per me il contemporaneo non è questo tempo ma quello che deve venire. L’epoca contemporanea non coincide cronologicamente con ciò che stiamo vivendo in questo momento. In un certo senso pensare il contemporaneo significa pensare il futuro, e mi riferisco alla forza dell’immaginazione, naturalmente: il contemporaneo non è una pratica, non è una tecnica.
Come concetto è molto semplice, ma io parlo da un punto di vista artistico, di chi si pone nella condizione di creare un mondo finto, un mondo che non esiste. Un mondo che non esiste ancora. L’immaginazione e la finzione sono dei mondi possibili, e quindi sono necessariamente proiettati nel futuro, anche se si riferiscono a cose passate. La finzione vuole inaugurare da sempre un altro mondo e un altro tempo.
Forse si potrebbe anche dire che ciò che è contemporaneo coincide con ciò che vive di un altro tempo, di un altro scorrimento del tempo. Bisognerebbe forse parlare di ‘durata’, di qualcosa che si sganci dal calendario, dalla cronologia. Ecco, quando questo è vero, è ancora più vero nell’universo di una rappresentazione dove il tempo, in realtà, ha una durata di forme diverse e di intensità variabili.
Quando dico che per parlare di contemporaneo bisogna pensare al futuro, significa comprendere due tempi in una volta, cioè il momento in cui si pensa e la punta del tempo che si sta pensando. In una piccola novella, che si intitola Caro vecchio neon di David Foster Wallace, contenuta in Oblio, emerge un concetto del tempo molto interessante: una macchina è lanciata nella nebbia di notte e il tempo è paragonato al paraurti, che tende continuamente un po’ più avanti. Il contemporaneo per me significa esattamente questo. Non essere qui ma essere già altrove. Significa anche non essere al proprio posto qui, in questo momento. Questa è la condizione contemporanea. Che se vuoi coincide anche con la difficoltà di questi tempi, ma questo è un altro problema, un problema esistenziale, che certamente si confonde e si intreccia con un’idea più strutturale del tempo, più strutturata.
Il tempo artistico però è un’altra cosa, perché stiamo parlando di immaginazione, di mondi che non esistono e che da un certo punto di vista non esisteranno mai, ma proprio per questo hanno piena potenzialità, piena flagranza e probabilmente rimane l’unico ambito in cui è possibile pensare una rivoluzione. La prima rivoluzione è quella che l’artista impone sul tempo. Poi sul linguaggio. Un lavoro teatrale o un lavoro artistico, un film, un libro, un’opera è interessante quando senti che ti costringe in un altro tempo e tu ti senti ripiombato, tuffato in una dimensione temporale completamente sconosciuta. Direi che la materia sostanziale non è solo il tessuto connettivo che tiene insieme le cose, ma è qualcosa di più, ed è affine probabilmente alla cosa stessa. Un’opera insomma è riuscita quando il tempo che inaugura è riuscito. Per riuscito intendo una forma di rapimento, quando ti rapisce e tu stesso sei in qualche modo inaugurato dall’opera.

Dal tuo discorso deduco che sia impossibile e inutile tracciare un marchio del contemporaneo come se fosse un genere…
Sì, secondo me è una cosa più sfuggente. È imprendibile. Non bisogna confondere la contemporaneità con la cronaca, sono due cose molto diverse. La cronaca appartiene al dominio del commento, del commentario. La cronaca è già un aneddoto. Considerare quest’epoca come una cronaca significa fare del tempo un oggetto di discussione, ridurlo veramente a un discorso. Non è una condizione, ecco.
Trovo che quando si parla del tempo si debba alzare la posta, e che vada fatto anche quando si pensa alla condizione del tempo. A volte poi non si tratta neanche di pensarlo: lo stiamo pensando ora, in questo momento, ma in realtà il tempo non si lascia neanche parlare, mentre la cronaca sì. Esige il commento, il discorso. È proprio differente il punto di vista. Secondo me è riduttivo pensare a quest’epoca come la contemporaneità. Per me non è così. Ci sono opere del passato che sono molto più contemporanee di un telegiornale. Anche perché la cronaca è già di per sé un deja vu, è una finta contemporaneità. Ed è vero che tutte le cose ritornano, è drammaticamente vero che non c’è niente di nuovo nella contemporaneità intesa come cronaca, come storia. Tutto è già stato vissuto. Basta aprire un giornale e sembra di averlo visto già mille volte. Questo è veramente angosciante, è veramente una fonte di angoscia, di critica a quest’epoca.

Mi sembra che uno dei modi con cui ultimamente rifletti, crei, con cui nelle tue opere spingi avanti quel paraurti del racconto di Wallace, sia l’immagine.
Certamente. È vero che viviamo nel mondo dell’immagine, ma devo anche dire che rispetto all’immagine in quanto figura della comunicazione non c’è un confronto: sono due universi che non si toccano neanche. Dal mio punto di vista non c’è nessuna forma di antagonismo, per cui da una parte io non ho alcun punto di riferimento in quel mondo, dall’altra non mi sento nemmeno superiore. Da un certo punto di vista non c’è nessuna differenza tra un’immagine pubblicitaria e un’immagine usata da me. Quello che cambia è il punto di arrivo, perché, come ha dimostrato Warburg nella sua ricerca, le immagini scorrono e hanno una loro autonomia, una loro indipendenza, una loro storia, delle loro correnti sotterranee, dei loro flussi e riflussi, e quindi certe immagini possono passare attraverso la pubblicità e poi svanire, come un fiume carsico. E questo anche in un contesto che è nobile, o aristocratico o artistico. Quindi c’è una storia delle immagini, che è anche il mistero profondo della sorgente di un’immagine e della sua efficacia rispetto a un cervello umano. Ecco. Perché un’immagine ci tocca più di altre? Questo è tutto da scoprire. E quindi io per paradosso ti posso dire che non ho nessun riferimento con questo mondo della comunicazione però condivido le stesse immagini, perché appunto le immagini non appartengono a nessuno. E siamo noi che incrociamo e attraversiamo il loro flusso, il loro fiume, la loro corrente.
In questo riconosco l’importanza che ha avuto il pensiero di Warburg, che appunto individuava delle “pathosformeln”: è una teoria direi per certi tratti psicanalitica applicata alla storia dell’arte, con dei movimenti profondi, con dei rimossi e dei ritorni di fantasmi.
Nel mio caso si tratta di aspettare e di evocare un’immagine. Non si può inventare un’immagine. Non si può essere inventori di nulla, ma aspettare, questo sì. Creare uno spazio, creare un varco ed essere una soglia perché questo avvenga.

L’immagine si pone in relazione con il linguaggio, con la ricerca di un linguaggio?
Diciamo che il linguaggio che viene utilizzato è un linguaggio che prima non esiste. Ogni volta un’opera artistica si pone nelle condizioni di essere un terreno veramente genitale del linguaggio, e quindi occorre una invenzione completa di questo artificio nella consapevolezza che di artificio si tratta, di una costruzione violenta di un sistema. Il linguaggio appunto è un sistema dove ricadono elementi differenti, che sono immagini, parallele a forme, e queste forme sono a loro volta prodotte da suoni, cose che si possono vedere, cose che si possono sentire. E quindi io non faccio veramente differenza fra una parola, un’immagine, una luce o il dettaglio di un costume. Proprio perché il linguaggio che viene prodotto e riprodotto è un sistema che deve colpire il sistema nervoso di un cervello umano, è un’unica sensazione, un’unica onda emotiva che lo percuote con un ritmo.

In questa idea di costruzione di un artificio è esclusa, limitata, discussa l’idea di rappresentazione? Perché la tua idea di artificio è proprio l’idea di un organismo autonomo...

Io non rifiuto il termine ‘rappresentazione’. Io accetto anche la parola ‘spettacolo’. È una parola di cui non bisogna aver paura, nel senso che anche un fuoco è uno spettacolo. Anzi, direi che il nocciolo, l’essenza dello spettacolo è proprio l’incendio. Perché è una cosa spettacolare, cioè che fa fermare le persone, che sa fermare il cammino delle persone. Davanti a un incendio ci si ferma. Tutti si arrestano. Le attività si fermano per un momento. Uno spettacolo ti può fare piangere, ti può fare ridere. Ma è comunque qualcosa in grado di fermarti.
Per me questa differenza tra teatro e spettacolo non è così interessante. Vent’anni fa era più opportuna, anche rispetto al pensiero sulla società sullo spettacolo. Il mio pensiero critico rispetto a questa parola mi fa dire che sia una parola che va riscattata nella consapevolezza di una corruzione. Io mi rendo conto del fatto che il teatro non è una forma pura. Non è fatto per salvare le anime, ma per perderle. E quindi va benissimo la parola ‘teatro’ e va benissimo la parola ‘spettacolo’. È una parola che si associa a una certa idea di cattiveria che io credo sia giusta, in questo momento.
Giusta nel senso che è un atto consapevole, sia da parte dell’artista che da parte dello spettatore. Si va a vedere uno spettacolo perché si vuol essere ingannati. E questo lo diceva il vecchio Gorgia. Non si va a teatro per trovare una sorgente dell’uomo, non è assolutamente vero. Si va casomai per trovare una sorgente del cittadino, ma non dell’uomo. È spaventoso parlare di “sorgente dell’uomo”. Chi sei tu per dire una frase del genere? Il teatro non serve a mostrare una verità, ma a nasconderla. Qui ritornano i greci, ritorna la tragedia, ancora una volta. Non siamo andati avanti rispetto ai molti Gorgia che ci sono stati.
Lo spettacolo è un elemento estraneo, preparato con cattiveria. In questo contesto io amo gli spettacoli cattivi, quelli che mi tendono una trappola, che mi fanno cadere, mi stanano, mi catturano nel loro giro, nel loro gioco, nel loro tempo, che mi fanno scoprire le cose da un altro punto di vista, sotto un’altra luce. Fare del teatro un luogo delle origini mi sembra condannato a una sorta di anacronismo recente, di venti anni fa. Un anacronismo che diventa naif, completamente innocuo nella sua illusione. Il teatro è fondamentalmente qualcosa di impuro e di corrotto. E devo dire per fortuna! L’arte ci libera dalla verità, come diceva Nietzsche. E questo è fondamentale.

A questo punto, però, spostandoci dal teatro alle forme di spettacolo, che cosa pensi dello spettacolo della realtà, mostrata con evidente cattiveria. Per esempio la televisione o il reality show, che è una forma di spettacolarizzazione della realtà.

Quelle sono cose innocue: sono cose completamente devastate. Non hanno più cervello, pensiero. Non c’è più consapevolezza. Io la trovo una forma di droga che si dà ai bambini, ai vecchi, alle persone che non hanno gli strumenti. Forse più che una droga è un’anestesia, una forma di ottundimento del pensiero. Quella è una vera cattiveria. Malvagia. Malvagia perché non c’è consapevolezza. Questa è la differenza sostanziale che separa per esempio l’arte dalla pubblicità.
Da una parte c’è un’invasione del corpo di un altro, invece l’arte nasce dal tuo corpo, dal tuo bisogno di andare incontro all’impurità. C’è un bisogno di impurità che serve per essere puri nell’impuro o impuri nel puro. È una necessità vitale nello spettatore.
Invece gli esempi che fai sono prima di tutto di un’incredibile desolazione, forme di solitudine che si rivolgono a persone completamente sole. Sono di una solitudine devastata e devastante. Il teatro e lo spettacolo in teatro sono tuttavia forme che si rivolgono ai cittadini, a una comunità, al fatto di poter essere ancora insieme. E un’altra grande differenza è che se tu non ci sei il teatro smette di esserci. Se tu non sei davanti alla comunicazione, la comunicazione continua. La tua presenza è indifferente.

Prova a spiegarmi questa differenza che poni tra arte e comunicazione: sembra un paradosso dal momento che anche l’arte è comunicazione.

Per me l’arte non è comunicazione. E penso di poter dire che non lo è mai stata. Che cosa comunica per esempio Amleto? Lo sappiamo? Io credo di no, altrimenti non tornerebbe mai come un fantasma a tormentarci. Il punto è: che cosa voleva dire veramente, non vorrei dire Shakespeare, ma Amleto stesso...

Però comunque Amleto si mette su un palco e parla a qualcuno. In questo senso comunica.

Parla. Ma qual è la natura della sua parola? La natura della sua immagine? Non è quella della comunicazione che infine consegna un messaggio. C’è una zona d’ombra nella parola dell’arte. C’è una zona che non si lascia indovinare, non certo esposta al sole: esiste un lato che sarà sempre in ombra. La comunicazione invece ha uno scopo molto preciso: consegnarti un messaggio e condizionare la tua vita, condizionare il tuo comportamento. E quindi direi che l’arte è una sospensione, un’interruzione, è un interruttore di questa stessa comunicazione. Che cosa succede per esempio davanti a un quadro di Rotkho, che cosa ci comunica? Niente. Semmai c’è una liberazione o una contemplazione, comunque è uno ‘stare’ completamente diverso rispetto alla comunicazione. L’arte impone un’attività dell’uomo davanti a essa. La comunicazione presuppone proprio il contrario: è a senso unico, e questo fa una grande differenza in quest’epoca. L’ipertrofia della comunicazione è stata una malattia di quest’epoca. Siamo tutti in un letto di malattia, che porta a una paralisi. E per diretta conseguenza la parola è diventata circolare, e non significa più niente. Tutto è già visto, tutto è già conosciuto. Anche le notizie di guerra sono già conosciute, sembra di averle già viste, già lette, duemila volte. Proprio perché è fondata su una qualità, su un’essenza della parola che non dice più niente. Ha perso il suo fondamento. È per questo che il ritorno è un esigenza, e bisogna reinventare un linguaggio, e questo va fatto con la consapevolezza di essere in un dominio di corruzione… soltanto da lì può nascere la speranza di mettere insieme un logos. Un logos che dura poco tempo, perché ancora una volta la forza della tragedia è quella di mettere insieme delle persone che in quello stesso istante possono stare davanti a un linguaggio che ritorna, per un attimo, comune. La comunicazione è prova concreta che il linguaggio è una casa bruciata: non c’è più niente, non c’è più niente da dire. Perché è diventato soltanto un mezzo, uno strumento.

All’interno di questo quadro, proviamo a definire i compiti dell’artista e dello spettatore.
Io penso che siano due compiti molto simili, in realtà. Molto, molto simili. Personalmente non credo più nella figura del grande artista illuminato che cala il suo asso. L’arte non può essere un’esperienza personale, altrimenti non c’è più quell’incendio di cui parlavo prima: l’incendio è una cosa che può fermare una città intera, qualcosa che è in grado di parlare a tutti, che appartiene a tutti. L’artista è una persona che lavora prima degli altri, ed è lo stesso lavoro che si fa sulle immagini: si tratta di acuire le immagini, di aspettarle. Non di inventarle. Anche lo spettatore aspetta le immagini, solo che allo spettatore capita di vederle in un tempo più preparato.
Ecco, forse quello che l’artista fa è preparare il terreno. Come una volta si preparavano i pianoforti, ora si prepara il tempo per la rappresentazione. Che è molto più interessante che non preparare un pianoforte. Ed è anche molto più complicato e pericoloso. Ma l’atteggiamento è sostanzialmente, algebricamente dello stesso segno. Condividono la stessa posizione. Non c’è una simmetria, ma il rapporto è asimmetrico, nel senso che tutti e due stanno davanti alla corrente delle immagini che passano, e si crea una sovrapposizione tra le due figure. E lo spettatore sicuramente è la figura più potente, più sconcertante, considerando la cosa da questo punto di vista.
Perché lo spettatore è in una condizione esistenziale di questa epoca: davanti a una rappresentazione preparata c’è il pensiero della propria condizione esistenziale, e quindi si realizza un momento della presa di coscienza di sé molto forte, che appartiene più allo spettatore che non all’artista. O meglio: l’artista ce l’ha in quanto spettatore.
Essere spettatori in questa epoca significa ripensare al linguaggio che si è perduto, per esempio, a una memoria che si è perduta e a una necessità di tornare a una lingua e a un tempo reinventati. E alla possibilità di un nuovo mondo. Ma queste sono le condizioni del cittadino, non dell’artista. Si potrebbe anche dire: “Chi se ne frega, dell’artista!”

Proprio perché parli di cittadino, si potrebbe rovesciare la corrispondenza e dire che lo spettatore è l’artista.
Secondo me sì. Certamente. Infatti le opere più belle, più interessanti sono quelle che implicano la presenza dello spettatore come artista, come creatore di quella parte che manca, di quella parte di ignoto che in ogni grande opera c’è. Prendi per esempio Las meninas di Velasquez. Tu devi essere un artista, davanti a un’opera del genere. E qui non si instaura nessuna comunicazione. Perché è chiaro che c’è una parte che nessuno mai potrà spiegare. Perché è concepita in questo modo, è così dall’origine, e forse qui sta la cattiveria di cui parlavo prima. C’è sempre un mondo che non si lascia mai prendere fino in fondo e quindi non potrà mai cadere nel dominio della comunicazione. Perché aspetta e attende una creazione da parte dell’occhio dello spettatore, che è un occhio che lancia, che crea, che ricrea, che crea delle connessioni, dei passaggi, che scava.

…che conferisce una propria vita ai fantasmi…
Assolutamente.

In questo mondo che invece ci abitua a cercare subito la definizione più semplice, la spiegazione ufficiale che non ti chiede di mettere in moto la tua capacità di spettatore… Di chi è la colpa? Della scuola?
La colpa non lo so di chi è. Forse dipende dal fatto di non accettare più nell’arte la dimensione di pericolo che invece ha sempre fatto parte del pensiero dell’arte, ma non solo, anche della filosofia. Non c’è una filosofia interessante che non sia pericolosa. Ma per pericolo bisogna ben capire che cosa si intende. È gettarsi in avanti, nell’aperto. Il pericolo è uno stato di veglia, e quello che il mondo di oggi vuole è invece addormentare, anestetizzare la coscienza. Da un certo punto di vista, per i potenti la comunicazione ideale è con uno che dorme, con uno che viene rassicurato in continuazione e non è spaventato. Ma lo spavento rimane l’altra parte della medaglia, con qualcuno che può affermare: noi siamo quelli che ti garantiscono la tranquillità. È un meccanismo elementare.
Rispetto al teatro non ho mai pensato a quali potrebbero essere delle colpe, se esistono delle colpe individuabili. È vero che esiste un certo tipo di teatro, così come esiste un certo tipo di letteratura, di musica che è completamente rassicurante, conosciuta ancora prima di cominciare… ma questa è una cosa che si sa, non è una polemica recente. È sempre stato così.
Ci sono dei poeti con delle buone intenzioni e ci sono dei bravissimi decoratori. Ci sono spettacoli che sono talmente perfetti da essere buoni per poter stare nella vetrina di un negozio e ci sono vetrine che sono più interessanti di certi spettacoli. È questo, purtroppo. Ci si ferma su un aspetto perfettamente, puramente grafico, conosciuto, esattamente come un oggetto. Non c’è alcuna zona d’ombra. Però va bene: hanno diritto di agire anche loro.

Come sei ecumenico!
No, veramente! C’è bisogno del brutto, altrimenti la gente perché viene a vedere noi? Perché vive nella mediocrità, che spesso si annida nelle grandi istituzioni, nei grandi teatri stabili. Ecco, questo bisogna dirlo: dietro i grandi nomi dei grandi teatri stabili c’è una mediocrità patinata, perfetta, ineffettuale. Ma noi abbiamo bisogno di questa gente, altrimenti si perde anche un concetto di differenza, che è prezioso.

Nella tua attività di curatore, come è stato in occasione della Biennale Teatro di Venezia o di Incunabula al Comandini, che segni cerchi?
Per noi è molto importante aprire il Comandini a forme di immaginazioni che vengono da corpi più giovani, più giovani del mio. E non parlo di generazioni anagrafiche, ma di flussi di pensiero. Ho conosciuto delle persone anagraficamente più anziane di me che avevano un pensiero più giovane del mio rispetto al teatro. È anche vero che capita che spesso le due cose coincidano.
Quindi la necessità è quella di aprire uno spazio come quello del nostro teatro a persone che non hanno ancora avuto un luogo per manifestarsi. Non cerchiamo giovani e adolescenti, ma è chiaro che è più facile che siano i giovani a portare questo tipo di proposte. Ma la gioventù non è una prerogativa: non guardiamo la carta d’identità. La cosa importante è che ci sia un approccio solido rispetto ai temi che abbiamo trattato oggi: l’immaginazione, la forza di immaginazione di uno spettacolo. E quindi non è soltanto un atteggiamento filantropico, ma una necessità per me, per noi, per il Comandini, dare spazio, creare una molteplicità di punti di vista.
E per questo è stato importante per me durante la Biennale stare da parte, senza mostrare un mio lavoro. Aveva senso lasciare spazio, fare spazio. Proprio perché noi abbiamo questa fame, questo bisogno di nutrirci con immaginazioni nuove, differenti. E se non lo fa chi ha disposizione un teatro, uno spazio, chi lo deve fare? Certo non bisogna aspettare le istituzioni, perché queste sappiamo che non esistono: in Italia sono morte, morte, morte! E vogliono la morte: non sono soltanto paludate, ma si auspicano la morte di un nuovo pensiero, hanno paura di nuove immaginazioni teatrali. Vogliono il repertorio, ma il repertorio lo sanno fare solo loro, secondo un punto di vista pienamente diabolico.

Secondo loro, perché poi, probabilmente, non lo sanno fare realmente.
Certo! Il problema è proprio questo: in Italia è pieno di artisti, di gruppi teatrali che non hanno mezzi, a parte alcune eccezioni eroiche di festival che si arrabattano con poche risorse, e quello che fanno è costruirsi una scialuppa di salvataggio.
È venuto il momento di dirlo, di parlare delle gravissime colpe del Piccolo Teatro di Milano o dei grandi teatri stabili istituzionali. È una vergogna. Bisogna dirlo. Non è casa loro il teatro, non è casa loro! E non sono neanche loro i soldi che rapinano. La gente deve cominciare a dirlo e non avere più paura di questi mafiosi. Uno che parla è anche uno che viene messo all’indice, ma tanto io lo posso fare perché la mia attività è concentrata fuori dall’Italia… e quindi so di essere abbastanza vigliacco da questo punto di vista... Ma rimane un sistema che bisogna cominciare a denunciare: è anacronistico e ci esclude dal resto dell’Europa. Perché è un sistema inesistente. Io non sono un esterofilo, e lo dico con grande dolore, ma questa veramente è la fotografia dei fatti, di come stanno. Per esempio il progetto Domani, di Luca Ronconi, ma stiamo scherzando? Doveva intitolarlo Ieri, non Domani! Ma a quale domani si sta riferendo? È un titolo che è completamente sbagliato. A quale pubblico si rivolge? È un’auto celebrazione di un regista teatrale! In Italia, poi, dove i gruppi giovani non riescono a venire fuori perché esistono delle monarchie, dei patronati.

di Massimo Marino
 

COMPAGNIE
   

FESTIVAL

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Santarcangelo · 13
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aprile 2013
Pinocchio della non-scuola
Immagini a cura di Osservatorio Fotografico, note a margine su Pinocchio

5-13 ottobre 2012
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14 - 23 luglio 2012
SANTARCANGELO •12
Festival internazionale del teatro in piazza

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Marzo 2012
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Vie Scena Contemporanea Festival
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Arca Puccini - Musica per combinazione
Rock indipendente italiano e internazionale