Questione di codice: storicizzare, indicizzare, accedere. Posizionamento nello spazio, invece, per ascissa e ordinata: la cifra stilistica, la coordinata temporale, e dunque l’accesso al contesto istituzionale, a un indice monitorabile, alla ripartizione del finanziamento pubblico a pochi zeri, a tot condizioni. In questo caso a Contemporanea quattro è un numero primo, con Motus, Fanny & Alexander, Teatrino Clandestino e Kinkaleri. La generazione fa 90, lo storico di teatro segna oltre 10 anni, la geometria è una parabola, discendente, curva sotto il peso segnato dall’ago rosso del bilancio. Quattro gruppi a nervi scoperti ma ostinati, punti cardinali di una decade di teatro contemporaneo italiano, maturi per personalità ma costretti all’immaturità produttiva perpetua, penalizzati da un circuito stabile che anzichè pagare il ritardo sui tempi, li consegna al collasso, lasciando colare a picco le ammiraglie della flotta. Armate di tecnologia e chiglie acuminate, ancorate al presente con tale prepotenza da trascinarne il fondo nel proprio percorso, le quattro compagnie che qui si stringono al collo il nodo della definizione “generazione 90” recitano il proprio requiem mentre la brace scotta ancora, sotto le loro stesse ceneri.
Se maturità significa consapevolezza e personalità, la generazione 90 ha pagato caro il prezzo della propria crescita, radicalizzando l’autonomia della proposta artistica rispetto al panorama culturale istituzionale, correndo il rischio di un isolamento che con il tempo si è inesorabilmente verificato.
Una radicalità di linguaggi e di modalità produttive che ha assottigliato la fascia di pubblico attivo e attento a recepirne le proposte, e ha allontanato gli operatori accentuando la condivisione del rischio, facendo appello a una missione di sostegno all’innovazione che molti addetti ai lavori dimostrano di non possedere. O di non programmare, sia sul piano della circuitazione che su quello del sostegno alla produzione, intesa come atto di consapevole apertura al confronto e al dialogo con il pubblico.
Complice la scarsa politica di relazione con lo spettatore, per imprecise modalità di monitoraggio, il fatto che i vertici del sistema teatrale abbiano abdicato al ruolo di polarizzatori delle esperienze più vive delle arti sceniche contemporanee a vantaggio di una più solida , ma consolatoria, relazione con il proprio pubblico, è all’origine dell’impasse attuale che riduce all’invisibilità gli ultimi lavori di queste compagnie.
Queste ultime, costanti nel proprio percorso, si trovano a confrontarsi con un pubblico abituato all’alibi della fruizione disattenta, di fronte a lavori che spesso mettono in scena il loro stesso compromesso con lo sguardo dello spettatore. La radicalità del linguaggio e del percorso dei gruppi 90 non consente alibi, estremizza la richiesta di dialogo nei confronti dello spettatore, tende all’esasperazione nel cercare di aprire un varco, una reazione, in platea. Atteggiamento per definizione inadatto alla dinamica rassicurante che muove la programmazione degli Stabili, (salvo rare eccezioni) che per altro si autolegittimano confermandosi reciprocamente sul piano artistico, nella cancrena di certe produzioni stantie ma buone per tutte le stagioni, appunto.
Inutile dire che il circolo è vizioso, perché il pubblico intercettato dagli interrogativi di gruppi come Fanny&Alexander, o Teatrino Clandestino, hanno spesso un’unica chance di incontro/scontro le opere, immediatamente esiliate da qualunque circuito, abortendo quindi un dialogo che ha estrema necessità di ripetersi, ma che trova invece il primo interlocutore assolutamente irreperibile.
Evidente dunque che ci sia un tappo, a impedire il ribollire di certi discorsi, di alcuni interrogativi che solo queste, e poche altre compagnie sembrano porsi. La tentazione di storicizzare nel passato l’esperienza di quella generazione, che nel numero 90 sembra segnare l’età della morte di un saggio incompreso, sembra alimentata da fraintendimento per l’invisibilità nel sistema teatrale, ma corre il rischio soprattutto di non riconoscere la vitalità del lavoro di queste compagnie, che sono effettivamente sepolte vive, se la terra accumulata sopra di loro si misura in difficoltà economiche, o addirittura debiti, o occasioni potenziali di visibilità mancate, per indifferenza del padrone di casa.
Ma in tutto questo, rischio ancora maggiore è che la mancanza di occasioni di confronto con il pubblico reale faccia cedere il terreno sotto questi percorsi di ricerca, che sono prepotentemente esposti nei confronti del mondo contemporaneo, perché da essi dipendono totalmente. E se il pubblico fatica a relazionarsi con compagnie che riesce a conoscere appena, trovandole addirittura più facilmente fra le pagine di una rivista o di un libro, la stessa inevitabile incomprensione minaccia il lavoro di questi gruppi, che rischia di imbattersi di volta in volta in un pubblico che non sa più riconoscere per imposta lontananza, pur tenendolo gelosamente vicino al cuore.
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