Se le Ariette propongono da qualche anno spettacoli autobiografici, o autobiografie teatrali, e se Oscar Wilde diceva che ogni critica (teatrale, d'arte ecc) è una forma di autobiografia, ho pensato che l'unica maniera corretta per scrivere qualcosa di sensato era deporre ogni distacco avanzando un altisonante e spesso superfluo “io penso”.
Io penso che Le Ariette stiano attraversando un guado, penso che si trovino in una zona franca, ancora indefinibile, quella che precede la creazione. Di solito questo punto oscuro non viene nominato, rimane un'interferenza appena percepibile che disturba la forma finale, o la declina arricchendola. Credo che da Estate.Fine questo magma abbia cominciato a emergere, a manifestarsi, fino a divenire l'oggetto stesso della creazione in Bestie, uno spettacolo circolare, in cui non a caso gli attori percorrono ad anello lo spazio riservato agli spettatori, un lavoro che torna al punto di partenza forse per avere edificato ancora pochi piloni del nuovo ponte. Non è facile descrivere il metodo delle Ariette, una chimica inconfondibile che si crea di spettacolo in spettacolo, autobiografica solo per mancanza di definizioni più complesse. Avevo sentito parlare delle Ariette, di un teatro semplice, fatto di elementi. Sono andato a vederli la prima volta in un eloquente “Teatro del mare”, nella riviera romagnola. Teatro di terra era un canto notturno fra i boschi, con la chitarra e bicchieri di vino: terriccio che innaffiato germoglia palloncini, cassette da frutta per sedersi, senso delle cose passandosi scatoline piene di semi. Dopo Teatro da mangiare? in un castello in Lunigiana, mi asciugavo le lacrime ricantandomi Jersey girl in versione pianura padana, e pensavo che la ricetta delle tagliatelle alle noci bisognava segnarsela immediatamente. Ho poi seguito una processione in un borgo medievale, quel Secondo Pasolini che avrei ritrovato qualche tempo dopo a Santarcangelo, dentro Estate.Fine insieme al campo, alla natura innaturale, al senso della morte tangente al senso della vita. Autobiografia che diventa biografia di molti, lacerti che si ricordano e si confrontano, come se ci fosse uno strato esperienziale di fondo che aspetta di essere riconosciuto, dischiuso, riattivato. Direbbe Vittorini L'in più di ora, l'eccesso che producono gli oggetti, i profumi, le cose, che da consistenze immediatamente percepibili trascendono verso un “in più” che riporta a esperienze passate.
Il mio personale percorso di spettatore ha poi incontrato L'assente, già uno spostamento percettivo, già un fare i conti con una materia altra, dopo banchetti teatrali fra tagliatelle e polente. Già le Ariette sottraevano, si sottraevano, costringendo gli avventori in piccole panche buie nel tentativo di captare la sostanza di una voce. Era anche questa una forma di autobiografia? Probabilmente sì, ma autobiografia che elude la materia autobiografica, come quando leggiamo ad alta voce a qualcuno un passo di un libro che amiamo, raccontando del libro e di noi allo stesso tempo.
Arriverà poi Bestie, a Volterra in teatro e a Vignola in un ex macello. Il magma che emerge, dicevo. La necessità di svoltare, di prendere altre rotte e perché no anche di tornare al teatro. Interrogazioni sul senso della vita lanciate dal regista disarmato che cammina, coriandoli prima lanciati poi negati allo spettatore, Julian Beck, Pessoa, Dylan a volte anche declamati dal palcoscenico, quasi un segno di codici abusati eppure indagati, forse capaci di lanciare qualche ultimo messaggio. Il discorso allora si chiude, fa quadrato intorno ai propri mezzi e quell'in più di ora, almeno per me, rimane per la prima volta dalla loro parte, non passa, sono loro a tenerselo stretto. Non credo sia un problema di autobiografia. La relazione non s'innesca forse per sovraccarico, forse per necessità di riflettere su se stessi, forse perché quella materia oscura che presiede la creazione non può proprio essere nominata e condivisa. Sono loro che la devono nominare, noi non c'entriamo, pensavo sia a Volterra sia a Vignola.
Infine Dans ma maison, l'altro visto da sé e viceversa, il contenitore trasportabile a contenuto invariabile, occasione per riprendere le fila, sostare, riallacciare qualche nodo spezzato senza però abbassare la posta in gioco. Dentro alla scatola ci sono le Ariette, ci sono loro, ancora il loro teatro, i loro campi e spinaci, il vino catartico e le tigelle estetiche, ma fuori non ci siamo più solo noi: ci sono anche Piret e i suoi artigiani, che ricreano un microcosmo che parla da solo, con biciclette che azionano macine, piani superiori praticabili per conigli, piantine, piogge che di artificiale sembrano non avere nulla. Stefano Pasquini questa volta canta di una stanza che non ha più pareti, sempre con la fedele chitarra e la voce profonda, scende ad aprire una botola che rivela un pompa idraulica, si monda il viso, torna di nuovo la pioggia, l'ultima pioggia che ci sarà dato di vedere pensando al Bob Dylan di Bestie o forse una pioggia che cade semplicemente sui pensieri, nella Milano cantata da Vinicio Capossela, penso io. C'è anche il francese, lingua madre del debutto che sporca l'emiliano delle Ariette, ci sono canzoni d'amore in inglese che accompagnano una relazione che a tratti non si può raccontare, come non si può raccontare perché «quegli anni fra il 2001 e il 2003» siano stati così difficili. Quello del Théâtre de Chambre è uno sguardo che ripensa la scena, la sposta, provocando l'ossimoro di una autoriflessività esterna, che questa volta torna autobiografia in più di ora preservando la direzione intrapresa da Bestie, o forse edificando un muro di una casa che si voleva già pronta allo spettacolo precedente.
Non è facile capire come e perché gli spettacoli delle Ariette mi abbiano sempre colpito allo stomaco, senza possibilità di fuga, ebete di fronte al racconto e al teatro. A volte rileggo passi di recensioni e saggi scritti da penne esperte. Anche lì non ci trovo nulla, al momento di affondare il colpo, completata l'analisi, esaminata la struttura, evocati i rimandi, manca sempre un passaggio. Perché sentiamo le Ariette vicine? Perché il loro teatro che parte dal particolare trapassa in universale? Cosa succede, cosa avviene, come si trasfigura la materia individuale in racconto che si trasmette? Ovviamente la risposta non ce l'ho neppure io. Immagino che di mezzo ci sia la rappresentazione, quello spazio che sta tra l'arrivo degli spettatori e la sigaretta fumata mentre scorrono le visioni appena concluse. Ma allora di mezzo ci sono anche loro e ci siamo anche di nuovo noi, spettacolo-artista-spettatore formano una massa unica, che non avrebbe senso separare, che dissolve i soggetti e gli oggetti in un momentaneo flusso che scivola verso l'informe scorrere delle cose. Finito il tempo delle lacrime, spostata fuori la riflessione, alle Ariette si prospetta una scommessa alta, del resto l'unica che valga ancora la pena lanciare per rimettere in circolo un senso di quello che continuiamo a chiamare teatro.
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