venerdì 3 giugno, sessione pomeridiana con Jean Louis Perrier, Claudia Galhos, Goffredo Fofi, Anna Maria Monteverdi, Annalisa Sacchi, Fabio Acca, Rodolfo Sacchettini, Oliviero Ponte di Pino, Gabriele Rizza, Dino Incardona.
Domande Massimo Marino:
Dove vanno le arti sceniche in Europa?
Come si misurano con l’immaginario e la realtà di società scosse da diverse crisi?
Oltre il teatro, per un’arte della scena contemporanea?
Parola, racconto e nuovi/altri linguaggi.
Come l’innovazione praticata da diverse generazioni del nuovo teatro è diventata o non è diventata linguaggio condiviso? Che pubblico ha incontrato o creato?
Come le arti della scena contemporanee, con le loro ardite sperimentazioni, possono diventare patrimonio di un pubblico più vasto, o se la scelta di essere minoranza non sia un’opzione politica necessaria?
Come, in quest’ultimo caso, difendere e rafforzare la scelta di minoranza?
Una nuova lingua critica per nuove pratiche delle arti sceniche?
Confronti e scontri generazionali.
Strumenti per l’osservazione e la cultura delle arti della scena: informazione, riflessione, pedagogia, diffusione; le riviste, le case editrici, l’università.
Nuovi formati per altri spettatori.
Ponte di Pino: L’impressione è che il critico teatrale sia un “mestiere” ma non una “professione”. Non è più possibile campare di critica. Il teatro negli ultimi anni è molto cambiato e risente delle trasformazioni che stanno coinvolgendo un po’ tutti i settori. Ormai sui giornali è scomparsa la recensione, probabilmente è un processo comune ad altri paesi europei ma forse in Italia è accaduto più velocemente. Il problema delle riviste di teatro è soprattutto la distribuzione, penso alla mia esperienza ad “Art’o”. Speravamo di creare un circuito alternativo attraverso una rete di teatri sostenitori e invece il progetto è fallito. In edicola è impossibile uscire, perché per la sovrabbondanza di riviste e quotidiani è naturale che sei inesistente. Quando ho fondato il sito “www.ateatro.it” ho voluto subito mettere in condivisione materiali che potessero essere utili, dal teatro degli anni settanta, agli ottanta e ai novanta. Oggi è un sito consultato anche per le tesi di laurea. All’interno di “ateatro” esiste anche un forum e riceviamo molti messaggi soprattutto da giovani teatranti che attaccano la critica, considerandola colpevole della crisi del teatro. Credo che ci sia una sopravvalutazione del potere che abbia. L’importanza di mettere materiali in rete è comunque altissima, tutte le esperienze degli anni settanta che credevamo esaurite nel pattume degli anni ottanta è stata recuperata in modo del tutto particolare dalla generazione novanta. Credo che pur procedendo per percorsi alternativi ci sia una trasmissione di saperi.
Monteverdi: ho sempre sentito il bisogno di trasmettere la memoria, la storia del teatro, di seguire quello che accadeva. Nel lavoro su “ateatro” su cui scrivo dai primissimi numeri abbiamo cercato di eliminare la recensione, privilegiando in modo particolare l’approfondimento. In questo senso il sito è diventato per molti un punto di riferimento dove reperire materiali. Con approfondimenti cerchiamo di seguire anche i processi degli artisti, in questo senso abbiamo seguito con attenzione il lavoro di Giacomo Verde o dei Motus. Seguendo anche gli studi, le tappe di un progetto. I siti di soliti seguono tutt’altra logica, pezzi brevi, veloci, superficiali. Credo che si debba sperimentare anche nella critica nuovi formati, una sorta di critica che potremmo dire “ipermediale”. Non si può pensare solo alla forma del libro.
Galhos: anche in Portogallo si assiste a un declino della critica. Il problema sono gli spazi che i media dedicano al teatro e alla danza. Ormai c’è spazio solo per la tradizione, per l’accademia. Ma credo che comunque la parola abbia ancora un senso forte, non possiamo fare a meno dei libri anche se bisogna assolutamente pensare a degli approcci diversi. Ho curato un laboratorio dove si scriveva quotidianamente di danza teatro e musica e tutto questo è raccolto in un dvd.
Perrier: anche in Francia è difficile trovare spazi per il teatro. Si ragiona molto secondo la logica dei numeri, uno spettacolo merita spazio a seconda degli spettatori che riesce ad attirare. Anche nei settimanali più importanti la critica è praticamente sparita. Si fa attenzione sempre di più non all’opera, ma a chi la produce, non al processo creativo, ma alla vita personale dell’attore. La situazione è orientata verso un “centrismo” diffuso. Non c’è presa di posizione, come in politica. In Francia esistono teatri pubblici e teatri privati. I teatri privati sono totalmente impegnati nell’intrattenimento. Per la danza, la nuova danza c’è più attenzione, è un movimento che parte dagli anni ottanta e che in qualche modo sta entrando in modo più diffuso anche se rimane ovviamente un pubblico elitario. “Mouvement” è una rivista indipendente dove si trattano in modo più approfondito i temi della ricerca. È una rivista ovviamente che deve lottare per sopravvivere alle innumerevoli difficoltà imposte dal mercato.
Fofi: Il pubblico è sempre di più mosso solamente dalla “volontà di capire” e dal “divertimento”. Trovo dunque fondamentale distinguere “l’arte” dalla “comunicazione”. La decadenza delle arti deriva probabilmente proprio dall’ossessione per la comunicazione che è il nemico numero uno. La comunicazione arriva con la democrazia. Oggi credo che la democrazia si sia trasformata in una cosa molto diversa, forse opposta. Già nel 1963 Godard diceva “la pubblicità è il fascismo del nostro tempo”. Oggi la gente torna a teatro, dicono che per ogni film il 60-70% del pubblico è “casalingo”. Ma il teatro che vanno a vedere è puro intrattenimento. Il cinema è diventato televisione, completamente risucchiato. Teatro o televisione? Potrebbe essere un possibile criterio. L’altro discorso fondamentale che penso sia utile trattare, è quello della fantascienza. Negli anni ottanta è morto tutto, sono morti anche i grandi intellettuali, c’è stato un appiattimento terribile. Oggi di artisti veri per il cinema c’è forse solo Gianni Amelio, e qualche giovane, ma non di più. Per il teatro possiamo contare sei, sette gruppi. Bisogna essere “aristocratici” un po’ snob e difendere e proteggere le arti quando siamo di fronte a un valore reale.
Parlare di “critico teatrale” è assurdo, l’approccio deve essere quello dell’”intellettuale”. Sul nuovo bisogna stare più attenti, non bisogna perdere la curiosità. Credo che il critico sia un po’ come Zaccheo nell’episodio raccontato dai Vangeli. Per vedere per primo l’arrivo di Gesù esce dal villaggio e sale su un albero. Così credo che debba fare il critico, deve cercare di vedere più avanti possibile, per vedere Gesù o lo Tsunami poco importa, l’importante è sforzarci di capire i cambiamenti. Bisogna essere assolutamente radicali perché la critica teatrale è morta e siamo comunque totalmente perdenti rispetto ai grandi mutamenti. Ma certe cose bisogna dirle, sulle Olimpiadi di Torino bisogna esprimerci, il tentativo di rilanciare una città morta come Torino spendendo milioni e milioni di euro per produrre gli spettacoli di Luca Ronconi è un vero e proprio scandalo. Il critico deve essere un sollecitatore, se no, non è un critico, vuol dire anche dare una mano agli artisti per farli diventare più bravi. Nei gruppi più giovani davvero bisognerebbe pensare a essere un po’ “educatori”. Occorre assumerci delle responsabilità e anche fare delle scelte di giudizio. Credo esistano adesso tre tipi di critica: quella accademica che per lo più seziona cadaveri, quella burocratica sempre più a metà nella gestione di eventi o nella direzione di teatri e quella pubblicitaria, diciamo quella sui giornali. Per il teatro, come per il cinema bisogna cercare “le immagini necessarie” e così lo stesso “le parole necessarie”. La nostra tradizione e Julian Beck, Jerzy Grotwoski e Carmelo Bene. La nostra tradizione è questa.
sabato 4 giugno, sessione mattutina
con Fabio Acca, Annalisa Sacchi, Rodolfo Sacchettini, Dino Incardona, Jean Louis Perrier, Claudia Galhos, Goffredo Fofi.
Acca. Mi sono avvicinato al teatro perché è un osservatorio privilegiato sull’oggi. Lavoro al Dams di Bologna e la situazione non è delle più rosee. In Italia negli ultimi hanno c’è stata una proliferazione di Dams ma il livello si è molto abbassato. Il Dams di Bologna si contraddice comunque per il fatto che vengono organizzati laboratori pratici. Sono però, a differenza degli storici CUT, obbligatori per gli studenti. Ci sono laboratori di critica, di regia, di danza, di scenografia etc. Vengono coperte un po’ tutte quelle che sono le categorie dello spettacolo. L’aspetto più inquietante è che le aspettative degli studenti sono malate. Il miraggio è televisivo, le nuove generazioni aspirano al musical o al teatro “televisivo” (cabaret alla Zelig) o al teatro di “tradizione”. I laboratori dovrebbero rompere le categorie, far saltare le tecniche della “rappresentazione”. Tutti vogliono fare teatro, c’è un forte senso di esibizione del proprio “io” che è ovviamente sostenuta dalla società. Il teatro ufficiale è ancora molto radicato nell’immaginario dei giovani.
Penso che sia centrale il tentativo di non specializzarsi, di rompere le categorie, bisognerebbe saper trattare il teatro parlando anche di altro. Sono d’accordo anche con quello che diceva Andrea Nanni, all’incontro di Mondaino, che bisogna tornare a essere didascalici, riconoscibili nelle nostre idee.
Ci vuole un grado di esposizione maggiore, penso anche a quello che sta succedendo a Motus. Bisogna riacquisire l’importanza del processo artistico, avere cura delle energie messe in campo e non soffermarci agli oggetti come bello o brutto. Gli artisti sono sotto tiro, esporsi significa farsi “impallinare”. Forse dovremmo ricompattarci, ricreare un tessuto disgregato. Ricreare una “comunità teatrale”. L’esposizione di una fragilità vuol dire mettere in campo un gesto simbolico. Gesti simbolici che possono ricostituire una comunità, un linguaggio in cui è possibile rispecchiarsi. Non credo che la bellezza sia necessaria. Penso che dietro al “bello” debba sussistere un gesto che ha qualcosa del “buono”, una progettazione sociale, forse. Da parte della critica c’è la necessità di ricalibrare il proprio sguardo, si può essere militanti solo rispetto ai processi e non agli esiti.
Sul “critico impuro” posso dire che è nato dalla volontà di “guardarsi”. Un gruppo di persone anche molto diverse tra loro. Ma ci ha unito la volontà di confronto. Non sento uno scontro generazionale, penso derivi tutto dagli atteggiamenti.
Qualsiasi spettacolo teatrale credo, e lo dico come una provocazione, sia meno interessante di quello che ha fatto e sta facendo “Unambomber”. Nel senso che vengono individuati i luoghi “sacri”, la chiesa e il supermercato. E deriva da una visione terribile ma anche realistica dei nostri giorni. Il bambino è come un pollo. Attratto dal kinder.
Penso inoltre che si dovrebbero riordinare i luoghi del teatro. Una rete fitta di piccoli luoghi dove si realizza teatro.
Sacchettini. Mi domando ancora in quali gruppi si avverte una riflessione sul sacro e sul consumo. È come se le giovani generazioni fossero interessate piuttosto a una visione laica ma nel senso più laido del termine. Pensare il teatro senza sacro credo sia un tema da approfondire, la tendenza è piuttosto all’intimismo al soggettivismo. Molti gruppi si interrogano sull’origine del male e trovano gli anni settanta e la famiglia “borghese” l’inizio di tutta una serie di problemi e questioni. Il fatto è che quando non vi è denuncia di tutto questo ma in qualche modo una viscerale compiacenza certi lavori vengono fagocitati da se stessi.
Ho pensato a quello che diceva Fofi a proposito di come in Italia i gruppi veramente significativi potrebbero essere sei o sette. E in qualche modo possiamo dire che sono la generazione dei “quarantenni”. Dopo di loro si avverte clamorosamente un vuoto. È probabile che questa difficoltà di emergere sia comune al cinema o alla letteratura, ma credo che per il teatro lo scarto che abbiamo davanti sia più netto. Dovremo aprire un dibattito, e interrogarci sul futuro del teatro.
Può darsi che questo devastante effetto di scolarizzazione abbia in qualche modo irrigidito le vitalità e credo lo stesso accada per la critica. Gli studiosi e i critici di teatro escono ormai solo dai Dams, è come se il circuito fosse già segnato in partenza, i percorsi già scritti. L’autodidattismo che ha dato le cose più importanti nel teatro almeno degli ultimi quarant’anni è sempre più difficile da trovare. Penso anch’io che adesso sia venuto il momento di risommergersi, di ritornare in una sorta di sotterranei tentando di ricostruire una possibile comunità. A livello critico credo invece che la necessità sia opposta. Esporsi il più possibile.
Seguendo gli ultimi accadimenti l’impressione è anche che i luoghi di “minoranza” in cui si sono trasmesse in qualche modo conoscenze ed esperienze vengono sempre più risucchiate in un meccanismo di “istituzionalizzazione”. Per mancanza di risorse e per scelte politiche stiamo svendendo le minoranze. Certe “nicchie” sane, sono andate perdute e forse adesso si torna, come accade ai Motus, di ritornare a una sorta di “banda”.
Di fronte alle nuove generazioni, ai nuovi gruppi bisogna prestare molta attenzione, ma in modo cauto senza creare, come purtroppo succede spesso, “i fenomeni”. La critica ha spesso la colpa di imbastire tutto un meccanismo di aspettativa e di “sensazionalismo” che non fa altro che bruciare il giovane gruppo. Gonfiare il fenomeno per poi farlo esplodere, bruciare le nuove vitalità.
Sacchi. Credo che l’unico modo di fare “resistenza” (anche se il termine mi piace poco) sia fare una rivista. Rischiare con nuovi formati all’insegna dell’interdisciplina e con un progetto ben definito. Con “Art’o” cerchiamo di seguire i processi artistici ed evitiamo di fare le classiche recensioni degli spettacoli. Il problema vero delle riviste è capire per chi si fanno. Al di là di un dialogo con gli artisti non credo alla modalità dei proseliti. Non capire chi sono i lettori e se realmente ci sono penso sia uno dei maggiori problemi. Le voci più ricorrenti che ascoltiamo in questo periodo pare si interroghino “sull’immondizia” e tutto questo mi fa perdere di vista il perché delle cose.
Fofi. Bisogna essere seri, perché questi sono problemi assolutamente fondamentali per la nostra società. L’arte deve rimanere “alta”, è qualcosa di indicibile e non deve piegarsi alla comunicazione. Oggi il sentimento religioso si riscontra più nell’arte che nella religione che è diventata poco seria. Il problema è di qualità, individuare quelle opere che ci permettono di capire un sacco di cose. Marino. I consigli di amministrazione sono interessati a nominare un direttore che sia capace di attirare il più possibile sponsor. È questo che sta succedendo a Santarcangelo. Il caso del sito di ateatro, con la lettera “Perfida de Perfidis” è un segnale interessante. Dopo tutti gli appelli alla ragione, completamente ignorati, si è deciso di entrare nel dibattito con un “intervento a gamba tesa, da cartellino rosso” come lo ha definito Oliviero Ponte di Pino. Tutto questo dovrebbe farci riflettere. Perrier. In Francia i direttori dei festival non possono essere giornalisti. In questo senso la situazione è molto diversa dall’Italia. Credo che il problema maggiore nel mondo della comunicazione sia il fatto che tutto è in mano al capitalismo finanziario. Anche la destra politica fa chiara ostruzione a tutto ciò che può essere contemporaneo. Penso in particolare agli attacchi che hanno mosso a uno spettacolo di Jan Fabre, dove alcuni performers si masturbavano in scena. La critica ha un certo potere soprattutto quella vicina alla destra o a spettacoli tradizionalisti. Per la critica lo spazio dei quotidiani è sempre più ridotto e soprattutto è in mano a numero ristretto di critici. Un modo nuovo soprattutto per i giovani per fare critica, è scrivere i materiali per i festival. Penso soprattutto a tutti gli articoli di approfondimento che vengono elaborati per il Festival di Avignone. Sono contributi importanti che, a differenza della critica sui quotidiani che è sempre più superficiale, hanno la possibilità di fare tutto un lavoro di ricerca sugli artisti e le loro opere. Possiamo dire che ormai da qualche anno i testi critici più interessanti si trovano non tanto sui giornali ma all’interno delle riviste dei teatri. Il paradosso ovviamente è che il critico viene pagato dall’istituzione. Una contraddizione irrisolta.
Sabato 4 giugno. Pomeriggio
con Fabio Acca, Annalisa Sacchi, Rodolfo Sacchettini, Dino Incardona, Jean Louis Terrier, Claudia Galhos, Roberto Canziani.
La riflessione di Canziani si inserisce sull’argomento oggetto della riflessione della mattinata: per lo studioso la questione della partecipazione più o meno diretta del critico (puro o meno) è una problematica piuttosto vetusta che risale alla prima metà del secolo. Rispetto alla provocazione sollevata da Ponte di Pino sulla critica sempre più mestiere e meno professione, sostiene che uno dei distinguo fondamentali che le impedirebbero di costruirsi come professione consiste nel ricorso da parte degli intellettuali agli stessi strumenti di formazione che non sono stati aggiornati da tempo, mentre la cifra fondamentale del professionismo starebbe proprio nel rinnovo continuo della strumentazione (a questo proposito ha portato la testimonianza contemporanea dello Stabile di Genova in cui l’Asssociazione Nazionale dei critici di teatro, ospitata dall’organismo, ha premiato due artisti di stampo tradizionale e di marca ottocentesca).
La questione secondo lui va probabilmente rilanciata da un punto di vista esterno alla critica, tentando di individuare uno scheletro ideale offuscato da riflessioni marginali. A questo proposito individua tre nodi fondamentali su cui fermare l’attenzione.
- La trasformazione tecnologica degli strumenti di comunicazione come registrazione del passaggio dal vecchio quotidiano al futuro dei contenuti delle realtà del web.
- La trasformazione professionale del mercato del lavoro (dal garantismo sindacale al liberalismo professionale odierno) come trapasso dalla figura del giornalista originario a quella che fornisce prestazioni promiscue con quelle di ufficio stampa.
- L’oscillazione del gusto medio e di quello di massa. Se lo spettatore si è ridotto a essere il pubblico di una ricaduta mediatica, l’oggetto della comunicazione ha smarrito la propria essenza trasformandosi in quella materia che la stampa, come la televisione o la pubblicità, ha formato, fino ad annullare la necessità di una verifica.
A partire da questa struttura nodale, Marino propone una dibattito sulle diramazioni che le tematiche sociali o sociologiche di pubblico, tecnologia, professionismo innestano nell’ambiente critico-teatrale. A questo proposito introduce la necessità di una considerazione sulla “soggettività”, in parte allacciandosi all’intervento di Claudia Galhios
La proposta del decalogo ‘massimale’ si articola in undici punti che i relatori saranno chiamati ad approfondire individualmente adottando un argomento su cui offrire il proprio personale contributo:
1. inventare strumenti per osservare un teatro che cambia e che si affaccia alle nuove categorie di tecnologia e scrittura che richiedono approcci psicologici ma anche simbolici differenti.
2. inventare metodologie per raccontare un teatro che cambia
3. accompagnare i processi creativi
4. la responsabilità del mio sguardo, della mia parola
5. esplorare altre strade per la visione
6. imparare dove guardare e guardare sempre più avanti e più in avanti
7. essere per il giudizio
8. essere Vs. la media-zione
9. essere Vs. la comunicazione, per la chiarezza
10. proporre parole/immagini necessarie per il futuro
11. ricreare la comunità teatrale e i luoghi del teatro
Canziani precisa a questo punto un’allerta sul soggettivismo che rischia di condurre a una separatezza eccessiva e una chiusura nella propria enciclopedia sostenendo che l’esperienza del lavoro critico nasca più che da un ideale, da una spinta contingente rispetto alla quale i punti elencati di Marino rischiano di deviare.
Per Perrier uno dei punti principali da trattare consiste invece proprio nell’analisi strutturale politica ed economica: questa dittatura correrebbe infatti il pericolo di determinare un totalitarismo finanziario a livello nazionale che si ripercuote sul mondo dell’informazione, ghettizzando gli sguardi alternativi. Il Festival di Avignone costituisce per il francese, in questo senso, la possibilità di uno spazio e un tempo altri dalla critica del quotidiano e una strategia per difendersi dal centrismo diffuso.
Anche la Galhos portando l’esperienza della realtà portoghese avvalla l’idea che il teatro debba liberarsi dalla preservazione politica ed economica premiando chi sfugge alle regole di mercato e propone una resistenza. Concorda sull’idea che le competenze critiche si siano estese ma interpreta felicemente la possibilità di sostituirle con una maggiore mediazione dialettica, favorita da dialogo e scambio. Offre il contributo del proprio gruppo di studio impegnato nell’accompagnamento delle formazioni di danza e teatro e concentrato sulla discussione con gli artisti, i laboratori, le aperture che le compagnie offrono al pubblico per esporre i passaggi dei propri processi artistici. Lamenta il ritardo dello Stato nel comprendere l’importanza di questi incontri, concentrandosi unilateralmente sull’utilità delle pratiche consumistiche. Canziani rilancia a questo proposito la considerazione sulla provenienza esterna (editoria, insegnamento…) di chi si dedica al mestiere giornalistico fermando l’attenzione sulla radicale distanza dalla realtà francese in cui vige l’egemonia delle cattedre separate.
Marino connette a questa osservazione quella trasversale e più immediata tra critici interni all’organizzazione (per esempio di un festival) ma esterni al giornale (e viceversa), giornalisti ospitati, informatori, i promotori, i re-censori indipendenti e ancora quelli che in Portogallo si preferisce chiamare ‘analisti’ piuttosto che ‘critici’.
Conclude la giornata circolarmente Acca riconnettendosi alla riflessione inaugurale di Ponte di Pino. Per Acca la difficoltà di rendere professione la critica teatrale consiste nella resistenza ad aderire a un sistema così costrittivo; forse andrebbe individuato un luogo alternativo su cui o tramite cui scrivere (e per questo si incarica di approfondire l’ultimo punto dell’elencazione ‘massimale’) ad esempio il web, che impone formati che non sono solo quelli della rapidità e della stringatezza consentendo anzi spazi e tempi potenzialmente infiniti. La professione allora può individuare una strategia per costruirsi come puro esercizio di idee, il che implica anche necessariamente una responsabilità precisa rispetto alla propria soggettività e una frontalità diversa da quella informativa.
Certo ci sono alcuni rischi: quello di creare una microcomunità autoreferenziale isolata (Sacchettini) come di annullare la possibilità di relazionarsi privatamente (Claudia Galhos) o ancora l’imposizione di una ricerca tra numeri e nomi infiniti che spesso può scoraggiare nell’approccio con un oggetto, tra l’altro meno appetibile dei molti che circolano in rete; perciò Acca riconosce la necessità di una comunicazione trasversale e parallela che consenta il riconoscimento più immediato e insiste sulla precisa attualità della proposta e la sua consonanza con la realtà attuale.
Programmare, curare le arti della scena.
Curatore: Andrea Nanni.
venerdì 3 giugno, pomeriggio
Con: Andrea Nanni, Silvia Bottiroli, Daniel Soutif, Virgilio Sieni, Felicita Platania.
Domande Andrea Nanni:
Il programmatore come figura di dialogo tra l’artista e il pubblico.
Quali nuove questioni si trova ad affrontare un programmatore?
Quali relazioni costruire tra le nuove forme sceniche e le diverse fasce di spettatori (quelli vecchi della prosa e della danza percepiti come generi chiusi e quelli nuovi che attraversano arti differenti con la stessa curiosità)?
Come accompagnare progetti che si pongono fuori dal mercato?
Come creare un nuovo mercato (sano) per i progetti che danno vita a opere?
Quale ruolo possono avere le reti europee nella creazione di tale mercato?
Che cosa significa costruire programmi internazionali? E lavorare sul e con il proprio territorio?
Come coniugare la propria tradizione con l’innovazione necessaria per dialogare con i nuovi artisti? Quali esperienze oltre la forma del festival e della stagione?
Nanni: “La figura del programmatore di teatro si definisce in base a una serie di relazioni. Il programmatore è un punto di contatto tra artista, pubblico, istituzioni.” Inizialmente sono stati sviluppati due aspetti: il radicamento sul territorio e il rapporto con il pubblico
Nanni: ”E’ necessario scegliersi un pubblico o è possibile rivolgersi ad un pubblico generale?”
In risposta Platania racconta l’esperienza del centro Zo di Catania di cui è direttrice organizzativa. “Allo Zo l’offerta iniziale era rivolta ad un pubblico selezionato, ma grazie a una serie di attività collaterali si è verificata l’apertura ad un pubblico più vasto ed eterogeneo, facendo diventare il centro Zo un luogo di aggregazione per la città.”
Nanni: “L’aspetto peculiare dell’esperienza dello Zo di Catania dimostra la necessità per gli operatori di teatro di crearsi un pubblico nuovo. Da una parte abbiamo una fascia di vecchio pubblico del teatro dei generi che lentamente si sta esaurendo senza aver avviato un processo di ricambio generazionale, dall’altra lo spettacolo contemporaneo ha saputo crearsi un suo pubblico mediamente giovane, aggregatosi principalmente attraverso i centri sociali.”
Il dato imprescindibile e condiviso è che il pubblico attuale non basta a sostenere la produzione teatrale italiana.
Nanni: “Come creare un nuovo pubblico, quale strategie mettere in atto?”
Sieni: “Il pubblico attuale è un pubblico generazionale, non colto e principalmente di tendenza. Uno degli aspetti fondamentali per conquistare nuovo pubblico è l’identità del luogo, l’attenzione e l’attrazione che il luogo può suscitare ad un suo, particolare pubblico.” Sieni propone la sua esperienza con il centro CanGo dove si è lavorato per costruire uno spazio ben connotato, con una forte progettualità, cercando di rimanere smpre aperti verso l’esterno. Il nodo della riflessione di Sieni è che c’è sempre una certa ansia ad essere contemporaneamente “qui e ovunque, mentre io ora sto riflettendo sulla possibilità dell’isolamento, sul pensare la comunicazione non necessariamente su scala internazionale, ma di creare un luogo specifico che possa soddisfare ambizioni ed esigenze specifiche per un pubblico specifico.” A questo Nanni aggiunge “il problema dello spazio è determinato anche dal tipo di teatro che si propone: le scelte artistiche impongono esigenze tecniche le quali vanno ad incidere sulla scelta del luogo”
Secondo Soutif, che guarda all’esperienza italiana paragonandola a quella Francese, il problema italiano è un problema di soldi, non di pubblico. “Il problema è principalmente politico, in Italia non c’è un sistema, una struttura con cui il pubblico potenziale possa entrare in relazione. Non c’è nemmeno un referente politico nazionale, ogni esperienza dipende dall’iniziativa e dalla buona volontà di pochi che ogni giorno sono costretti a combattere sempre le stesse battaglie, lavorando in una situazione di continua emergenza. L’anello debole è costituito dalla politica e ho la sensazione che sia necessario che gli operatori ripensino ad una struttura per poi sottoporla al punto di vista della classe politica. Se si lavora senza struttura, senza tradizione, senza passato, ogni sforzo muore senza lasciare tracce. Un sistema più forte sarebbe invece in grado di limitare anche le inevitabili carenze di eventuali politici.” La proposta di Soutif è quella di pensare ad una rete che nasca dagli stessi organizzatori, al fine di costituire un sistema di scambi e di mutuo soccorso. “Se le cose che si fanno non hanno continuità saremo sempre costretti a ricominciare da capo. Ma per fare una rete occorrono fondi e molta disponibilità da parte di una serie di attori promotori.”
Sieni: “Purtroppo molte compagnie hanno un atteggiamento egoistico. Quali potrebbero essere i soggetti del teatro italiano promotori di una rete come quella proposta da Daniel?”
Nanni: “Oltre a questo c’è un problema di riconoscibilità, molti teatri propongono stagioni schizofreniche per andare incontro alle esigenze del pubblico, in questo modo diventa difficile formare un identità. Anche per questo non credo che l’incapacità di fare rete nasca da una mancanza di fondi ma di un errore di impostazione, da un problema di mentalità: l’Italia è la terra dei principati dove ognuno difende il proprio orticello.”
Bottiroli riassume così i problemi fondamentali finora individuati “disinteresse, spesso colpevole, della classe politica e incapacità degli operatori di costituire un fronte comune per rivendicare i propri diritti. Alcuni tentativi in questa direzione sono stati fatti ma nessuno ha dato frutti degni di nota. Ci si è sempre scontrati con problemi di particolarismo artistico, ognuno cerca di rivendicare la propria originalità. Le differenze artistiche sono importanti, ma nascosti dietro i particolarismi non si riesce a cogliere lo sguardo ampio su un progetto comune all’interno del quale tali differenze non sarebbero messe in discussione”
Nanni: “Paradossalmente in Italia ci sono alcuni programmatori che sono anche troppo bravi, incapaci però di pensarsi in un sistema. Quello che manca spesso è la capacità di pensare al futuro, di aprirsi alle novità. Per molti in Italia riunirsi in sistema assume le caratteristiche di un punto d’arrivo non di una tappa verso mete più lontane. Questa nostra incapacità ci rende deboli nei confronti della classe politica e non ci permette di contrattare e di avere voce in capitolo su aspetti pratici del nostro lavoro, alcuni dei quali finiscono per metterci in competizione l’uno contro l’altro. Ad esempio il problema delle prime oppure la necessità di inserire gli spettacoli in generi ‘ministeriali’ che ormai sono lontani dalla realtà.”
Platania: “Noi abbiamo scavalcato questo problema in modo radicale, non avendo mai chiesto fondi statali. Crediamo che fino a quando non cambierà la normativa sarà necessario cercare strade alternative per finanziarsi. Non possiamo né vogliamo identificarci in un genere e per questo ci muoviamo più agilmente all’interno della legislature europea in cui le definizioni sono più attuali e hanno contorni più sfumati. Il modello scelto da Zo è quello della multidisciplinarità che fino a pochi anni fa era un’eccezione nel panorama italiano.”
Nanni: “La ricerca di strade alternative è un tema che è stato affrontato molte volte, in particolare Silvia Fanti ha tentato spesso e caparbiamente inventarsi e percorrere sentieri non tradizionali. Ma un dato imprescindibile secondo me è che per lavorare occorrono molti soldi e quindi è necessario affidarsi ai fondi pubblici. Il diffuso senso di impotenza nei confronti della politica fa sì che tutti ci sottraiamo al compito di dialogare con la classe dirigente. Le cose vanno male e negli ultimi dieci anni sono andate sempre peggio.”
Bottiroli: “Credo che sia importante non abbandonare la battaglia politica, si possono non chiedere soldi allo stato ma si deve continuare a pretendere un cambiamento delle regole. Il sistema politico ci mantiene in una condizione di debolezza e di insicurezza che va necessariamente superata.”
Platania: “Ognuno dovrebbe puntare sui punti propri di forza, che generalmente sono il radicamento sul territorio, il rapporto con il proprio pubblico e con determinati enti locali, e in alcuni casi gli sponsor.”
sabato 4 giugno, sessione mattutina con: Andrea Nanni, Silvia Bottiroli, Felicita Platania.
Punto di partenza sono alcuni termini chiave da sviluppare legati al lavoro dell’operatore
Andrea Nanni: CONTINUITÀ, intesa come la disponibilità a tener conto della storia di un luogo da parte dell’operatore, nel caso in cui subentri nella gestione di un festival o di un vero teatro. Bisogna tener presente che garantire una continuità è un’assunzione di responsabilità, rappresenta un obiettivo da raggiungere.
Può sembrare che significhi mantenere una direzione presa, in realtà Santarcangelo dimostra che la capacità di cambiare sempre tenendo presente la storia è vincente. Bisogna avere un atteggiamento “sano” nei confronti della tradizione: né museale, né di rifiuto.
Silvia Bottiroli: ASCOLTO: altro termine su cui riflettere. Ascolto nei confronti della realtà che è cambiata, gesto di ascolto nei confronti di ciò che c’è intorno
Nanni: GIUDIZIO: uno dei punti che unisce il critico all’operatore è il fatto che entrambi devono assumersi la responsabilità di un giudizio verso il lavoro dell’artista. Quali sono i criteri? Questa è la pietra dello scandalo. In base a che cosa si sceglie? Nell’ambiente critico ciò è vissuto con difficoltà, si viene da un periodo che ha avuto il suo massimo esponente in Quadri, che affermava la fine del tempo del giudizio, la fine del criterio del gusto. Lui metteva la descrizione al posto del giudizio. Per me dalla descrizione viene necessariamente fuori un giudizio. È impossibile prescindere dal fatto che prima o poi uno giudichi, dal momento che ti occupi di un qualcosa che cambia o che dovrebbe cambiare continuamente ( cambia l’artista, la ricezione del pubblico, fino agli stessi formati proposti - atto unico al posto dei due atti di un’ora l’uno)
Come si individua il criterio? Sulla base della capacità dell’opera di “illuminare la realtà”, non più di cambiarla come si era illuso di fare, ma di illustrarla nella sua verità, con tutto il suo senso di epifania o orrore che può accompagnare tutto questo.
“Pool” di Kinkaleri, per esempio è molto bello - forse il più bello - ma segna una battuta d’arresto, è come se non riuscisse a creare nuovi strumenti rispetto a quelli già individuati.
Io poi continuo a pormi il problema della RADICALITA’: io ho pensato forse sbagliando che bisognasse trovare comunque una mediazione, ma delle esperienze mi fanno pensare che Daniel ieri aveva ragione. Mi riferisco a Castrovillari, dove presentano un’azione di danza molto radicale, e il tenore degli spettacoli è questo. Eppure è seguìto. Mi domando se più che fare un lavoro di mediazione non si debba fare un altro tipo di lavoro, cioè lavorare nelle scuole, fuori dalla sala per creare presupposti che portino la gente IN sala.
Felicita Platania: Sia il lavoro del programmatore che del critico si fa di un misto di osservazione. Il giudizio per me si basa sullo stupore. Se non mi emoziono a vedere uno spettacolo, vuol dire che non ha smosso ciò che io giudico importante. Le scelte di chi programma non sempre sono intrise di questo, ci sono anche scelte di altra natura, a volte nascono da un’“occasione di scambio”. Nel caso di Moscato e Kinkaleri nel mio territorio, per esempio: Enzo moscato dava a noi la possibilità di far conoscere al pubblico un modo di fare teatro con un linguaggio di facile comprensione ma con una carica di novità.
Nello stesso contesto, Kinkaleri ha lasciato un pubblico spaesato perché non aveva colto lo spettacolo. Il mettere accanto questo - due spettacoli così diversi - viene ancora portato avanti da noi.
Nanni: Il programmatore non deve farsi portatore di UN linguaggio.
Platania: Il critico molto spesso si fa portatore di una tendenza, tanto che spesso si vedono critici diventare programmatori.
Nanni: Parlavamo di teatri schizofrenici. Guccini metteva in rilievo la tendenza passata di “inclusione o esclusione” - del “con noi o contro di noi” - ; non funziona assolutamente più. Il criterio di “emozionalità” è molto più valido. I mezzi che l’artista usa per emozionarmi possono essere tutti e nessuno, non m’importa.
Platania: Con l’innovazione dei linguaggi sono d’accordo, finché non diventino maniera.
Sempre riferita forse alla radicalità, faccio il confronto tra uno spettacolo che ha lasciato il pubblico imbalsamato al nord e entusiasta e calorosissimo al sud: il sud è un terreno vergine, ha strumenti percettivi in grado di ricevere tutto. Il programmatore deve tenere in considerazione le esigenze del territorio.
Bottiroli: Del lavoro di ieri mi interessava approfondire le esperienze personali riguardo al LAVORO DI GRUPPO. Non si può più pensare al programmatore solitario, ma a un gruppo orizzontale, in cui i ruoli non siano necessariamente divisi in settori diversi, in cui gli spettacoli siano visti insieme, le decisioni prese insieme. È un’idea per me interessante. Mi chiedo se sia una modalità di lavoro ispirata dal lavoro di artisti che hanno scelto percorsi di gruppo più che percorsi solisti.
Nanni: Per me è stato così. Porto sempre l’esempio di Kinkaleri: la cosa che di loro mi ha sempre colpito è la loro modalità di lavoro a sei, in cui non vi è il regista, l’attore…. E ciò mi ha colpito sulla base del prodotto che veniva fuori. Si vedeva che non era il lavoro di uno, non perché fosse frammentario ma perché non poteva venire da una testa sola.
L’impatto era diverso dalle performance tradizionali, e ciò lo avevo notato fin dalle prime esibizioni del gruppo, dieci anni fa quando nessuno se non a livello locale li conosceva.
Bottiroli: L’altro aspetto interessante del gruppo di lavoro è il criterio di scelta della programmazione, come diceva Felicita: si sceglie tutti insieme.
Platania: Nella mia esperienza vedo che c’è un ELEMENTO CREATIVO anche nel ruolo del programmatore. La scelta di fare uno spettacolo in un posto piuttosto che in un altro è un aspetto di confronto interessante. Ci sono casi in cui la progettualità non è del singolo ma del gruppo. Prevale la leadership collettiva, fa si che la cosa vada avanti, e Kinkaleri ne è la dimostrazione. Laddove nasca una leadership individuale, il gruppo crolla.
Bottiroli: Possiamo anche dire che i gruppi di cui noi abbiamo esperienza di lavoro sono gruppi di PROGETTO, nasce la necessità di un lavoro a più teste nel momento in cui viene fuori la consapevolezza del ruolo del programmatore come ruolo a più facce: ha importanza nel rapporto con gli artisti, con i teatri, con la politica sociale e con il luogo.
Nanni: Volevo porre l’accento sulla tendenza che c’è a non considerare la difficoltà del ruolo del programmatore dall’esterno. Al contrario i programmatori devono trovare una certa leggibilità da parte del pubblico.
Platania: Quando in una programmazione c’è un filo, quella giunge al pubblico ed è per lui criterio di scelta.
Nanni: Quando parlavo di leggibilità dell’operatore parlavo della difficoltà di far passare un pensiero, “creare un ambiente”, offrirlo al pubblico perché lo attraversi, e quindi far passare anche ciò che ti ha portato a scegliere quell’ambiente.
Leggerei l’articolo di Angela Vettese. “Quando il curatore è da curare”
-INTERVALLO-
La tendenza degli ultimi anni è di fare una programmazione in un teatro, un altro tipo di programmazione nell’altro. Così si tornerà alla ghettizzazione.
Il rimescolamento fa paura, ora so che se vado in un teatro certe cose non mi toccheranno, invece noi vorremmo mescolare le carte, ma ci rendiamo conto che non è possibile farlo perché è un tasto bollente.
Martone ha scelto di abolire la logica dell’abbonamento per far tornare la gente a guardarsi intorno, e non incanalarsi nel binario del “già scelto per lui da un altro”. Il fatto che abbia funzionato è un segnale forte.
Per il festival la logica è diversa, uno si fida della programmazione che è stata fatta perché conosce a cosa va incontro.
-FINE INTERVALLO-
LETTURA ARTICOLO
Nanni: Altro punto importante del lavoro del curatore è quello che deve rendere conto a un autore.
La cosa che salta all’occhio dalla lettura è che nell’arte la figura del curatore ha un’aura che nel nostro campo assolutamente non ha.
Platania: nella mia esperienza ho notato che nelle esposizioni d’arte gli artisti non fanno un passo senza i galleristi e i curatori.
L’estremo è arrivare a pagare un gallerista perché esponga i tuoi quadri. C’è un’organizzazione più inquadrata rispetto al teatro, dove non si arriverebbe mai a pensare di pagare un ente per farti esibire.
Bottiroli: mi sembra centrale il tema del POTERE che Cristina evocava nell’articolo che abbiamo letto ieri. Parlo del potere che noi abbiamo rispetto alla FORMAZIONE DI UN PUBBLICO , di esercizio di politica culturale in un territorio, e il rapporto che abbiamo rispetto agli artisti, cosa significhiamo per gli artisti - penso che molte compagnie vedano sant’arcangelo come luogo di potere - , quindi che tipo di potere abbiamo noi e il potere con cui ci confrontiamo, quello politico. Rispetto a punti affrontati stamani, il radicamento, il rapporto col pubblico e le relazioni internazionali, il rapporto con gli artisti sono forti e dovremmo prenderli come punti di forza rispetto al rapporto con il potere politico.
Il potere che è dato dal radicamento - l’affezionamento del pubblico ad uno spazio di cui sentirebbe la mancanza se scomparisse - la capacità di fare RETE e costruire relazioni con gli artisti fa parte di un lato visto come politico dal pubblico.
Siamo incapaci di mettere in fila i punti di forza che ci sono per usarli.
Nanni: Da questo punto di vista mi sento impotente nei confronti dei politici.
Bottiroli: Riferito a Felicita mi sembra che rispetto a voi noi ci sentiamo molto più legati al potere politico, siamo in un atteggiamento quasi intimorito verso il chiedere ai politici.
Platania: Anche quando c’era un’amministrazione di sinistra, ci è stato accordato lo spazio per Zo ma ci sono voluti 3 anni poter avere i soldi - benché l’amministrazione politica fosse quindi favorevole. Dentro di noi è diventata una battaglia, era pero’ una tensione con qualcuno da cui sapevi di avere un ascolto.
Poi Zo è partito esattamente nel periodo di mezzo tra l’amministrazione Bianco e quella di Scafagnini di centro destra. Poi c’è stata una disattenzione sulle tematiche della cultura da parte dell’amministrazione comunale in genere, non solo sul teatro. A quel punto parlavamo con persone a cui non interessava assolutamente nulla.
Poi hanno sì sostenuto un’edizione del festival, ma togliendoci 40.000 euro su 100.000 5 giorni prima del festival. Io non li voglio più vedere, è un problema di avere disponibilità all’ascolto. Oggi forti di ciò che abbiamo stabilito, la strategia deve essere quella di “battere i pugni sul tavolo”, mettere in chiaro le carte di ciò che Zo ha fatto. Da una parte è la scelta migliore ma a un certo punto cerco una forma alternativa di autosostegno, che non è minimamente comparabile con quella che sarebbe quella dello stato.
La nostra esperienza è abbastanza forte, ed è il motivo per cui siamo guardinghi nei confronti dell’amministrazione, non capiamo i parametri per sulla responsabilità del ‘proprio’ sguardo/memoria, dall’altra lanciando un allarme sul mito della democratizzazione come livellamento pari a quello televisivo o del marketing, da soccorrere attraverso le innovazioni e le ambiguità che proprio la soggettività è in grado positivamente di iniettare.