Ho letto l’indicazione “Sesto Fiorentino” percorrendo l’autostrada per venire qui, è l’uscita che precede Prato. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare un passaggio al ‘Festival Intercity’ che ha aperto in questi giorni la sua diciottesima edizione. Ho immaginato che potesse essere l’occasione per conoscere Barbara, o anche solo per ascoltare la sua voce, costantemente mascherata dietro le parole di altri autori da lei tradotti, interpretati, spiati, importati nelle nostre minuscole biblioteche drammaturgiche. E invece no. Il Festival si interrompe per due giorni: la sua curatrice è drammaticamente scomparsa questa mattina alle sette e trenta.
Non ci siamo incrontrate per un caso e non per caso vorrei parlare proprio di incontri. Non i numerosi e fortunati che nutrono la biografia della regista, traduttrice e drammaturga Nativi, da Thierry Salmon, a Rem&Cap, allo scenografo Dimitri Milopolus, ma gli incontri che grazie a lei abbiamo potuto fare e prima ancora il suo fondamentale con il teatro, quando a ventotto anni comincia un coraggioso apprendistato nella periferia fiorentina. Da lì non emigrerà, neanche dopo il riflusso seguito al fermento degli anni Settanta, stabilendovisi prima con la scommessa collaudata di Laboratorio Nove poi con il Teatro della Limonaia e la sua ammirabile attività, prova vivente di come la costrizione all’isolamento possa trasformarsi in vocazione al coinvolgimento. E che le sfide abbiano sempre costituito un bersaglio iridescente per la regista maremmana, lo dimostra l’ardito viaggio nei territori inesplorati e mai abbastanza testimoniati della drammaturgia. Quegli stessi tragitti che hanno percorso a ritroso gli autori canadesi (il Bouchard de Le cognate, Le regine di Chaurette), francesi (Lagarce, Gabily…), britannici e oggi scozzesi dagli argini delle loro patrie teatrali ai margini della metropoli fiorentina. La Nativi si allea a questa generazione dannata, come i Blasted di Sarah Kane, arruolata a riconsegnare fiducia nelle possibilità del linguaggio teatrale e nella formazione dei giovanissimi, con lo stesso rabbioso bisogno fisico con cui i suoi favoriti inglesi, da Ravenhill a Butterworth, da Crimp a Harrower, da Philip Ridley a Jakie Kay attraversano il reale e lo restituiscono in parole. Così nasce quel Cantiere delle Storie Infinite che Rodolfo di Gianmarco ha coniato per il progetto ‘Connections’, così comincia l’opera di scavo, ricerca e traduzione. Così lei è arrivata anche a me, come un’ombra su cui poter solo fantasticare. E mi piace immaginarmela pure un po’ arrabbiata, questa donna cinquantenne, come i giovani eredi di Osborne, che a trent’anni da quando il Saved di Edward Bond fu bollato come “una bella trovata nel campo delle bestialità”, rilanciano il sogno di un’alternativa radicale all’allarme dell’incomunicabilità. I loro testi protestano e denunciano; lei restituisce voce e corpo alla grammatica mentre la sua sagoma sfugge continuamente. Il testo viene esibito, ‘c’è e dice tutto’, come avrebbe dettato Heiner Muller, ma negli spazi bianchi della scrittura si intravede il profilo trasparente della regista, le sue parole senza sonoro che “urlano e si lamentano”, l’azione, l’intervento, lo scontro anche; e l’incontro.
E daccapo, con uno degli ultimi incroci più significativi della storia della drammaturgia contemporanea:
Nel 1997 Sarah Kane lascia Sesto Fiorentino per Londra, un anno dopo la ‘psicosi delle 4.48’ se la porterà via. Nel settembre dello stesso anno in direzione opposta arrivano i giovani del National Theatre in occasione dello stesso progetto ‘Intercity’ che oggi ha portato alla ‘Limonaia’ gli autori di Glasgow ed Edimburgo. La scomparsa di un’altra donna, forse quella che maggiormente ha saputo penetrare le pieghe della tormentata drammaturga inglese.
Non ho avuto la fortuna di incontrarla, ma sono molto fortunata che lei abbia incontrato me.