All’inizio c’erano il critico e l’organizzatore, a fianco dell’artista, ad analizzare, a contestualizzare o a promuovere il suo lavoro. Da quando si sono moltiplicate le lingue della scena e non si tratta più di rispettare un canone, anche lo sguardo e la cura hanno mutato pelle. Non c’entra solo quella che non è una normale evoluzione delle cose: nel teatro si procede per salti e per scossoni, per gerontocrazie e per barriere invalicabili. I tentativi di rivoluzione, quasi tutti rientrati lasciando tracce più o meno labili, hanno comunque scosso il terreno fino a renderlo franabile in punti imprevisti. Da questa condizione e da una continua perdita di memoria bisogna comunque partire: quello che è stato fatto ieri può servire per la retorica delle rievocazioni, non per inventare modi più decenti per preservare barlumi di esperienza e per tradirla in quell’inaspettato che è il futuro.
Cosa sia un patrimonio ce lo racconta, su queste stesse colonne, Chiara Alessi in un “autoscatto”. Ambigua parola, accumulo, patriarcato, copyright. Col termine innovazione si possono riempire molte bocche, e i politici lo fanno abitualmente.
Per tre giorni ci interrogheremo, partendo da queste sigle consumate, su come è necessario ascoltare il processo, l’emersione, ciò che non c’è ancora o che sta apparendo, sbocciando, crescendo, lottando per sopravvivere o per affermare l’identità. Cercheremo di capire come covi ancora qualche brace sotto le etichette nelle quali rassicuriamo la miseria creativa, l’obnubilamento critico, la svendita e la messa all’asta di noi stessi, il fracasso, la solitudine organizzativa. In fondo, di lato, oltre il coro, fra, nei margini, nel tratto più impensabile della linea d’ombra, sta la fine della bonaccia.
Riuniremo da venerdì pomeriggio a domenica mattina critici che scrivono sui quotidiani o su internet, sperimentatori di riviste o di scritture interattive, editori di breve o lungo corso, lanciatori di sassi nelle paludi dell’avvilita cultura nazionale e becchini che aspettano di seppellire il cadavere per ricominciare. Saremo nell’ex orfanatrofio, ora Teatro Magnolfi, tra cellette dove dormiremo e vecchie aule o camerate dove lavoreremo. La metafora dell’orfanità è fin troppo facile, nel nostro caso. Lavoreremo a porte chiuse, assolutamente penetrabili: se qualcuno ci chiede di partecipare per ascoltare, non negheremo l’accesso. Alla fine di ogni sessione racconteremo dettagliatamente gli incontri su queste colonne.
Nelle cellette di fianco a noi si riuniranno gli organizzatori: di cosa parleranno ne scrive Andrea Nanni su queste stesse colonne. Domenica ci riuniremo in una sola discussione, perché i confini sono saltati da tempo, i critici diventano curatori, direttori, e i direttori artistici devono avere occhi e strumenti di critici per mettere insieme fili di senso e non solo un programma. Tutti devono guardare e ascoltare.
Ci saranno anche sguardi stranieri, per provare a spostarci dal nostro orto chiuso, molto poco paradisiaco.
Ecco una traccia delle domande che guideranno la riflessione:
Dove vanno le arti sceniche in Europa?
Come si misurano con l’immaginario e la realtà di società scosse da diverse crisi?
Oltre il teatro, per un’arte della scena contemporanea?
Parola, racconto e nuovi/altri linguaggi.
Come l’innovazione praticata da diverse generazioni del nuovo teatro è diventata o non è diventata linguaggio condiviso? Che pubblico ha incontrato o creato?
Come le arti della scena contemporanee, con le loro ardite sperimentazioni, possono diventare patrimonio di un pubblico più vasto, o se la scelta di essere minoranza non sia un’opzione politica necessaria?
Come, in quest’ultimo caso, difendere e rafforzare la scelta di minoranza?
Una nuova lingua critica per nuove pratiche delle arti sceniche?
Confronti e scontri generazionali.
Strumenti per l’osservazione e la cultura delle arti della scena: informazione, riflessione, pedagogia, diffusione; le riviste, le case editrici, l’università.
Nuovi formati per altri spettatori.