Sia il critico che l’operatore sono figure dialettiche: entrambi hanno il compito di fare da ponte tra l’artista e il pubblico, entrambi hanno il problema di individuare la qualità e di assumersi la responsabilità di un giudizio, sia nei confronti dell’artista che nei confronti del pubblico. Ma è soprattutto l’operatore a relazionarsi ogni volta con situazioni geografiche e contesti sociali precisi (il pubblico di una grande città del nord non è quello di una cittadina del sud, così come il pubblico di un teatro stabile non è quello di un festival). Per questo l’operatore dovrebbe avvertire con particolare urgenza e concretezza la necessità di entrare in relazione con il pubblico già esistente e di creare nuovo pubblico mettendo in atto precise strategie. Dato che lavora in un ambito in cui la definizione dell’oggetto di lavoro (lo spettacolo) si sposta in continuazione rispetto ai mutamenti percettivi che la società registra sempre più velocemente e frequentemente, l’operatore non può appoggiarsi a una definizione normativa e definitiva della qualità: la definizione dovrà essere per statuto mutevole e provvisoria, anche se - dovendo individuare un criterio durevole - la qualità di uno spettacolo sembra proporzionale alla sua capacità non di cambiare il mondo ma di alzare il velo sulla realtà portando il pubblico a rimettere in discussione le sue abitudini percettive, e questo aldilà del linguaggio usato dall’artista. Non che la forma sia trascurabile, anzi, è il principale strumento politico che l’artista ha a disposizione. Il fatto è che si rende sempre più necessaria l’apertura a un plurilinguismo tanto più fecondo quanto più resistente alle etichette (la complessità del reale oppone sempre una sana resistenza all’astrazione dei modelli di cui ci serviamo per conoscere il mondo).
Progettare senza progetto può sembrare un’affermazione paradossale e provocatoria, mentre presuppone una disposizione all’ascolto che prescinde da rassicuranti griglie tematiche o di genere spesso adottate col pretesto di indirizzare il pubblico. Per questo l’operatore più che amputare la realtà per renderla conforme alla griglia dietro la quale talvolta si trincera (altrimenti rischia di finire per tagliarsi le dita dei piedi come le sorellastre di Cenerentola per entrare nella scarpetta) deve costruire le scarpe tenendo conto dei piedi: questo non significa livellare verso il basso, ma operare una mediazione calibrata secondo le situazioni per ottenere di volta in volta il risultato migliore.
In ogni caso bisognerà diffidare delle affermazioni generiche e rimettere in campo criteri di giudizio che richiedono verifiche continue e concrete: in questo modo forse sarà possibile sottrarre la parola ‘onestà’ al campo delle astrazioni per riportarla nell’ambito di valutazioni legate a pratiche specifiche.
Naturalmente, accanto all’artista e al pubblico, esiste un terzo referente a cui l’operatore deve rivolgersi: l’istituzione, ovvero il politico. Altrettanto naturalmente i rapporti tra i due sono difficili, in quanto la politica cerca qualcosa a cui il teatro rinuncia in partenza: il consenso generalizzato. Tutta la cultura degna di questo nome crea fratture e quindi non può che essere invisa ai poteri. Per quanto riguarda il teatro il ruolo principale è quasi sempre affidato a piccoli poteri territorialmente definiti, come ha lucidamente dimostrato Carla Benedetti nella sua analisi dedicata al caso Martone. Ma con questi poteri l’operatore teatrale è ‘costretto’ ad avere rapporti, in quanto il teatro non può fare a meno dei soldi pubblici: e qui il problema della mediazione e dell’onestà si fa ancora più bruciante. Con quali strumenti affrontare il compito di convincere i politici a considerare l’innovazione un patrimonio? E come accompagnare progetti che si pongono fuori dal mercato? Come creare un nuovo mercato (sano) per i progetti che danno vita a opere? E ancora, come coniugare la propria tradizione con l’innovazione necessaria per dialogare con i nuovi artisti? A questa e ad altre domande proveremo a rispondere nel gruppo di discussione intitolato Il patrimonio dell’innovazione - Programmare, curare le arti della scena.