Io non posso sapere che cos’è l’ultimo spettacolo. I finali mi creano difficoltà. Sarà perché li trovo romanticamente malinconici. In qualsiasi cosa che termina, anche quella che più ci ha fatto faticare, che più abbiamo odiato, della quale abbiamo invocato una subitanea conclusione, rimane un sottilissimo e sotterraneo velo di rimpianto.
"Dovrò sognare per sempre il tuo viso? Perché non possiamo superare questo muro? No. È finita. Questa sarà l’ultima volta che ci salutiamo".
Non m’interessa sapere che dell’altro inizierà. In quel preciso momento i miei passi si allontanano definitivamente. Non c’è verso. La memoria è un affastellamento di abbandoni.
"È la sua ultima possibilità. Lei è sempre fuori tempo massimo. È la sua ultima possibilità. Di girare i tacchi e andarsene".
Mi viene da pensare. Vorrei che uscire da teatro servisse a qualcosa. O non vorrei sottomettermi all’obbligo di uscire. Vorrei che ogni spettacolo non fosse sempre l’ultimo.
Che la scrittura diventi una forma di momentaneo risarcimento?
"Sotto la visuale della stella Sirio le opere di Ghoete fra diecimila anni saranno polvere e il suo nome sarà dimenticato. Questa riflessione è sempre stata istruttiva. Meditata a sufficienza, riporta i nostri movimenti alla nobiltà profonda dell’indifferenza".