Avanti, avanti, vietato guardare indietro. Nel “teatro contemporaneo” la parola d’ordine sembra essere “cambiare senza sosta”, con l’incalzante necessità di continuare a avanzare per cercare sempre nuovi linguaggi. E dimenticare quelli vecchi, volutamente accantonarli, in un’incessante ricerca di dire in un modo diverso.
È come trovarsi di fronte a un adolescente che non voglia parlare. Si aspetta che l’adulto capisca ciò che lo ha mosso a esprimersi, e basta. Non parla esplicitamente perché sta ancora ricercando i mezzi per farlo, ancora con una sorta di cordone ombelicale che lo lega ai codici infantili ma con un rifiuto verso l’espressività gestuale “non sottintesa” dei bambini. Con il beneplacito del luogo comune per cui la “crescita è frattura”, il linguaggio è minimizzato, stridente, e difficilmente immediato, ma mai povero di argomenti. Al contrario ricco di stimoli verso questo adulto che è continuamente chiamato a essere parte attiva nel rapporto. Se disposto a mettersi in gioco, deve accettare le regole, fare i conti con il proprio bagaglio emotivo, pronto a confrontarsi con una diversa prospettiva sul suo mondo. Pagherà con una riflessione faticosa, instabile come ciò che sta osservando, ma consapevole delle nuove capacità che ha acquisito.
È dunque quella del “teatro contemporaneo” l’adolescenza dell’arte scenica?