Patrimonio, ovvero: che tassa dobbiamo pagare sull’eredità dei padri?
Così l’espressione astratta che ieri targava gloriosamente i beni dell’umanità, le risorse genetiche e le meraviglie naturistiche, si sta lentamente traslando in un oggetto di mercato, imponibile di reddito e negoziabile per acquirenti facoltosi.
I miei antenati sparpagliati per il mondo, in cambio di che cosa?
Intanto il Presidente della Repubblica nel giorno della sua festa inaugura un museo dedicato al patrimonio nazionale che sfoggia uniformi militari e divise calcistiche dei nostri beniamini.
Posso appartenere a questa patria se indosso una gonna a pieghe?
La conservazione che si trasforma in servilismo, la protezione in paternalismo e la successione ci impone la sostituzione: per succedere dobbiamo subentrare. O figli legittimi o clandestini. O sostenitori dell’eterologia o allarmisti della clonazione, in corsa a depositare copyright.
E se provassimo a immaginare questo patrimonio anziché come l’enorme vasca aurea di Paperon de Paperoni come quella in cui galleggiano cervelli cartesiani? Un container, una logoteca, un software per depositare riflessioni e impedire una trasformazione troppo rapida della realtà; ma anche consentire una sua elaborazione. Un patamercato in cui il patrimonio non è più l’oggetto ma il soggetto dello scambio, che ne inverte costantemente le regole e si converte di continuo per scampare alle contrattazioni sottobanco e alle stime di un valore approssimativo. Un abissale pensatoio in cui si riproducono organismi endogonidi e protesi per crescite, un matrimonio che genera embrioni di intelletti impegnati alla ricerca.