Universo teatro. Una mappatura impossibile di cani sciolti, bavosi, rabbiosi. Con o senza padroni: non passa tanta differenza. Bisogna mettersi insieme. Perché oggi l’importante è fare rete. O forse fare ragnatele per creare trappole? Le reti non si improvvisano. Si costruiscono con fatica col tempo con passione. Altrimenti la rete non sarà forse un nome nuovo un po’ post-post-moderno per chiamare le vecchie antichissime corporazioni? D’altronde fare rete è difficile quando scambiamo il narcisismo per anarchia. Ma i rischi sono molti. I quotidiani stanno togliendo spazio al teatro. Ma non basta sfogliarne uno per capire che per cinema letteratura musica arte visiva la situazione non è molto diversa? E per la riflessione politica “intelligente”? Per l’informazione obiettiva, non manipolata c’è spazio sui giornali? Decorazioni su decorazioni.
Ma parliamo di teatro adesso ed è questo che ci interessa. Non c’è più spazio sui giornali. Oggi? Almeno da 20 anni. Trattiamo una situazione di normalità come emergenza. Esattamente come succede per l’immigrazione. Emergenza immigrazione: un fenomeno che in Italia compie ormai trent’anni.
Non c’è un progetto che non guardi al di là di sei mesi. Come un contratto co.co.co., tappiamo i buchi per non affondare. È chiaro che il ricatto del concetto di “emergenza” è il “si salvi chi può” e dunque teniamoci i nostri orticelli e che il Padrone ce la mandi buona!
Produrre parole nuove, inseguire i mutamenti, differenziarci il più possibile da “loro”. Tanto le parole te le scipperanno fra pochissimo. Anche il burocrate più sfigato parla di “contaminazione delle arti”. Sciacquarsi la bocca con belle parole porta a non capire più nulla degli ordini delle gerarchie del potere. L’unico cosa possibile è avere “un’idea”. Poche idee ma confuse come diceva un tale. Solo con le idee puoi pensare il futuro e dare un senso a uno spazio. Luoghi diversi per attirare nuovo pubblico? Troviamo spazi più vicini alle sensibilità della gente comune. Facciamo il teatro in luoghi anomali, abbandonati. Macelli fabbriche dimesse chiese sconsacrate… tanto siamo sempre noi. Allora facciamo il teatro di strada. C’è già ed è insopportabile. Allora in piazza! Troppe macchine. Allora suoniamo i campanelli, troviamo il modo di entrare in casa, portiamo il teatro a tutti, perché no! Facciamo il teatro dentro la televisione così tutti lo possono vedere.
Il nuovo pubblico non si improvvisa. L’improvvisazione è fuori tempo massimo. Improvvisiamoci funamboli, quanto resistiamo? Due, tre, quattro secondi? Il disastro antropologico in atto ci coinvolge tutti, nessuno escluso. I danni li sentiremo per almeno venti, trent’anni forse per sempre. Il nuovo pubblico non può essere un numero in più. Da presentare come carta vincente all’amministratore locale. Allora perché non organizzare una “sagra dello gnocco” con qualche bella danzatrice che danza non sopra i tavoli, ma sotto, per simboleggiare il ribaltamento dei tempi? L’unica forma possibile di coinvolgimento è il contagio. Un ottimo modo per trasmetterci le peggiori malattie. Rapporti non protetti, relazione uno a uno, passa parola. Il contagio è il miglior modo per morire almeno un po’. La comunità per diventare più numerosa o ruba donne per generare più figli o va alla conquista di altre comunità. Oppure accoglie gli stranieri, gli ospiti, i curiosi. Ma quest’ultima è una pratica ormai dimenticata. Invece attualissima è la pratica del luccichio, tutto quello che luccica è oro. Come insetti attratti dalla luce. Proposte? Cambiamo nome alla Fiat, chiamiamola Ferrari. Una Panda della Ferrari. Un successo. Ed è successo. Prendiamoci le nostre responsabilità. Creare un pubblico nuovo mantenendo tutta la necessaria radicalità vuol dire formare giovani disadattati. Se ci adattiamo abbiamo perso. L’unico senso possibile dolorosissimo ma necessario è essere disadattati?
GIOVANI. Perché parliamo di giovani per l’alveare quando l’età media è di 31 anni? Perché continuiamo a prenderci per il culo? Perché a trent’anni siamo ancora giovani promesse se Marco Van Basten a 28 ha finito la sua carriera? E Rimbaud a 20 aveva già scritto tutto? Perché ci domandiamo ancora perché? Perché non diventeremo mai “grandi”? E’ un bene o un male?
E per chi scrive? E per chi guarda? Quale può essere il “futuro”? Mestiere ma non professione. Cosi dicono gli ultimi “saggi”. Ma noi lo sappiamo bene che il denaro non ci appartiene, che ne vediamo e ne vedremo sempre molto poco. Che dovremo trovarci una professione “seria” per campare. Per fare il “mestiere” del critico, bisogna fare di professione “l’organizzatore”? L’operatore? Il comunicatore? Come sono conciliabili queste prospettive? Per chi aspira a fare il “critico” non è meglio fare di professione il “cameriere” che non “l’ufficio stampa”? Ma se il critico non riceve più soldi è meno ricattabile? Forse è meglio campare di altro. Più ti pagano e più sei ricattabile? O forse più che i soldi è il potere e il narcisismo a corrompere?
TEMI SPARSI: Nei dodici lavori delle Officine Giovani riconosciamo alcune tendenze. Gruppi che guardano in modi diversi al teatro. Con linguaggi differenti. Ed è impressionante la presenza del video. Almeno sette gruppi su dodici. Forse che lo spazio della scena ha bisogno sempre di più di un “altrove”? Una finestra virtuale per moltiplicare gli sguardi? Un modo come un altro per creare scenografia? Il mezzo più efficace per mandare “messaggi” pensando forse alla tv? Una moda? O uno specchio su cui riflettersi?
Gli spazi vengono quasi sempre lasciati vuoti. Ma di che vuoto parliamo? Spaziale o mentale? È uno spazio che accoglie il pubblico o lo rifiuta? Che lo avvolge o lo sfida frontalmente?
Spazio chiuso e spazio aperto. Quali sono i veri spazi “aperti”? I giardini, la campagna, i parchi? Perché non parliamo mai dell’arte in termini “ecologici”? il ronzio del critico, come scrive Castellucci, non è solo il modo moderno di inquinare la cultura con la comunicazione? Dispersione di energia, spreco, consumo. Forse dovremo essere più “operatori ecologici” raccogliere i rifiuti. E pulire l’ambiente dalle scorie inquinanti? Essere più severi con l’inciviltà? Iniziare a raccattarle le “merde” che lasciamo a terra?