Benvenuti all’inferno. Dopo la trilogia “del nulla” (My love for you will never die, OTTO e I Cenci / Spettacolo) verrebbe da dire che i Kinkaleri con Pool ripartono da zero. Ma non è vero. I primi passi mossi dal gruppo di Prato potrebbero essere quelli di un sub sprofondato in una piscina illuminata. Le luci al neon ad altezza uomo sfilano lungo i lati della scena quasi a rimarcare un perimetro e soprattutto un orizzonte chiuso poco sopra di noi. Siamo sotto il livello del mare, sotto il livello dell’umano. Il pubblico è seduto a terra, sotto il bordo luminoso. È come immerso in una vasca ad osservare gli accadimenti e le azioni della scena. L’ingresso è segnato da due cactus, forse le attuali porte dell’inferno o piantine ficcate nel fondo di un acquario.
L’inferno è davanti a noi. L’inferno è qualcosa senza rumore. Lo riviviamo, lo osserviamo, lo spiamo tenendo il fiato sospeso. Ma non potremo durare a lungo. Non possiamo tenere il respiro all’infinito, prima o poi dovremo soffocare. Una morte orribile. Eppure l’impressione è che il tempo non finisca mai di finire. Il silenzio è pesante, schiaccia la scena a terra, perché tutto appare come insonorizzato. Palline colorate bloccate da bicchieri di vetro. L’inferno è qui, è il nostro presente e non possiamo far finta di nulla.
Kinkaleri rischiano sui nostri gironi rubando immagini del presente, come hanno sempre fatto, ma questa volta la freddezza e il rigore lasciano spazio a un dolore intimo, personale. Cercano possibili direzioni, nuove strade da percorrere, con fatica con ansia. Impressiona Cristina Rizzo bloccata nei movimenti da un ingombrante cappottane nero, coperta da un passamontagna che ci rimanda subito alle terroriste cecene. E impressiona l’immagine della “piramide” che ci riporta alle torture in Iraq.
Non ci sono “messaggi”, “moralismi” o “proclami” tutto passa attraverso la dilatazione del tempo attraverso uno spazio vuoto galleggiante, che circonda lo spettatore anche con rumori e con azioni che accadono fuori dalla scena, fuori dallo spazio visibile dal pubblico. Ma sono soprattutto le immagini che si costruiscono sulla scena, in un susseguirsi faticoso ma a modo loro inevitabile, che ci richiamano continuamente i terribili tempi che stiamo vivendo. Appare un’umanità “sfigata”, spesso in ciabatte e pantaloncini corti, casalinga, addormentata e terribilmente implicata. Non si cade più sulla torta come in OTTO, ma si cade su un cuscino, addormentati, stanchi, senza forze.
Le suggestioni e le visioni si susseguono una sull’altra ed è davvero difficile inseguirle tutte. Alcuni materiali si riconoscono, provengono, seppur rivisitati, direttamente dalla trilogia, altri sono spostamenti, ricerche di nuovi possibili poli, tutto appare esposto, attaccabile, come forse non era mai successo prima.
Ma in sintesi potremmo dire che Kinkaleri indagano i luoghi e le immagini in cui risiede il male. Ed è per questo che appare la Stupidità raffigurata in un uomo con il volto di un pallone o in un bizzarro personaggio anni settanta con stivali e baffoni che ci richiama tanti personaggi musicali o politici dei nostri giorni. O ancora è il Sesso, ad apparire come ridicola nevrosi collettiva, e riassunta in pochi gesti mimati, o ancora il Denaro, nascosto sotto il linoleum e scovato da un capitano uncino claudicante. Denaro, potere, sesso, stupidità, l’ultimo lavoro dei Kinkaleri si apre come non mai al “massiminale” ma attraverso un linguaggio “minimale” che recupera un certo formalismo, (forse ancora prima di OTTO?), un linguaggio che persiste nell’opporsi alla “rappresentazione”, anzi ne indaga proprio tutti i crolli, tutte le falsità e le ipocrisie. Non si guarda dall’alto in basso, perché siamo tutti sommersi allo stesso modo, dentro una piscina, dentro a Pool. Attori e spettatori contagiati, in un’atmosfera tanto terribile quanto più la riconosciamo, quanto più gli oggetti e segni della scena vanno componendosi in immagini e visioni che girano su se stesse che aggiungo dolore a dolore, e pare che questa volta non ci sia nessuna via d’uscita, né il “comico” di OTTO, né l’“idiozia creativa” dei I Cenci. Come testine di un registratore giriamo infinite volte, in un loop infinito, in attesa.
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