RECENSIONI > Viaggio nell'alveare della comunicazione
Ci accingiamo a entrare in una stanza ma le porte sono chiuse. Ci avviciniamo alle finestre, ma le tapparelle sono abbassate. Con i volti schiacciati sulle vetrate cerchiamo di capire cosa sta succedendo dentro, finché le persiane si alzano e capiamo che siamo costretti a guardare da fuori ciò che accade nel chiuso della stanza, tanto vicina, ma così sorprendentemente lontana. È solo un vetro a separarci dalla scena, eppure stupisce la distanza con cui si mostra Luisa Cortesi p.zza dei macelli n° 3. E lo spettatore, come un intruso, come una web-cam, non può che osservare passivamente il corpo dell’attrice che si muove disteso su una pedana dipinta, e l’immagine del letto viene proiettata pure sul fondo della scena. È invece dall’interno che si assiste a Domestika. Il pubblico è direttamente coinvolto, è chiamato a osservare da vicino la totale mancanza di comunicazione tra gli abitanti di un anomalo appartamento. Se la performance di Cortesi Barzagli sembra poter esistere anche senza un pubblico, il lavoro di Juan Diego Puerta, al contrario, pare non vivere se non con il contorno di spettatori che entrano nella scena in contatto fisico con i tre attori.
Ma quando la parola prende corpo in scena, le domande sono pungenti. Come si relaziona all’altro l’uomo che vive in una realtà ormai annegata nella finzione televisiva? Come comunichiamo nel contesto sociale che educa al non-ascolto, all’annullamento dell’io? È questo il micro-mondo messo in scena da Teatro Edison, lontano dalla realtà e già sprofondato nella menzogna proposta dal piccolo schermo. Nella stanza degli ex macelli i due interpreti vivono il loro universo in una dimensione monotematica, maniacalmente circondata da televisori poggiati sul tipico pavimento incavato dei mattatoi. L’acqua però stagna, ricoprendo i grandi scarponi dei protagonisti, e piano piano imprigionandoli, come in una palude di vuote parole in cui stanno andando a fondo.
Il viaggio nell’alveare della comunicazione prosegue con il lavoro di Open. Di nuovo protagonista il suono, Openvolume, in una sfida tra frastuono e musicalità. L’atipica scena in cui si svolge l’azione vede il pubblico, anche qui fisicamente inserito nella cornice dei performers, diviso da un muro, che permette solo di immaginare cosa accada dall’altra parte. Si sentono i rumori, ci si sforza di captare più suoni possibili, ma la sensazione che rimane alla fine dell’esecuzione è di incompletezza, di aver perso parte di ciò che era lo spettacolo.
L’esibizione cambia ogni replica, perché tutte le sere viene accolto nello spazio un artista diverso. Nonostante questo, l’ambientazione rimane la stessa e permette solo a pochi spettatori di assistere a entrambe le parti della rappresentazione.
Agli altri, non resta che immaginare...