RECENSIONI > Paesaggi artificiali lungo la linea rossa
In un unico blocco dell’Ex macello di Prato, oggi Officina Giovani, i telai di ferro con i ganci per le bestie, le celle frigorifere, le piastrelle verde bottiglia sono invasi da video, slide, frame sincopati di lampade stroboscopiche, tracce soniche sintetiche, ambientazioni sonore minimali indotte dalla frequenze ad alto voltaggio di neon, luminosità abbacinanti e oscurità noir.
È l’invasione della linea rossa del progetto Alveare Officina Giovani, punto di osservazione possibile sulla giovane scena contemporanea che indaga quei territori in cui gli orientamenti slittano e si sovrappongono generando immaginari capaci di intrecci intertestuali, di decifrazioni, a volte, inaspettate.
A conquistare questo luogo di macellazione: paesaggi artificiali. Ecco il punto di convergenza di personalità diverse, quattro gruppi giovani Zimmerfrei, OOFF.OURO, Adarte, Giacomo Bernocchi, che, pur nella totale autonomia di risultati, viaggiano intorno alla commistione equivoca tra reale e non reale, tra fantasmagorie e attori in carne e ossa, a indagare i meccanismi stessi della rappresentazione, del montaggio e della presenza.
Una lavagna luminosa diventa per OOFF.OURO, gruppo di origine sarda che lavora in Polonia, il luogo di messa in discussione dei meccanismi stessi della rappresentazione. Una penna traccia sul vetrino precise parole: MEMORIA-PROCESSO-METODO. Uno sputo per cancellare. E poi ancora: 30 SEQUENZE NELLO SPAZIO PER MOSTRARE UNA INCOMPLETEZZA DEL SISTEMA. Una colata di china trasforma la proiezione luminosa del muro in lavagna di ardesia nera. Nessuna ulteriore cancellazione è possibile. A terra il linoleum scuro della stessa misura della proiezione è il doppio in negativo del sistema dell’irrappresentabile.
Ci saremmo aspettati che lo spazio restasse impraticabile, ma troviamo un ring in cui si posso tracciare solo traiettorie scomposte di una figura anonima in movimento, asettici esperimenti alla Muybridge.
A simple twist of fate si apre su un interno qualunque, un divano bianco e roba accatastata. È la settima riflessione che Zimmerfrei, collettivo bolognese autore di dispositivi di visione e di ascolto, dedicata al tempo e al suo frantumarsi in ritmo, in corpi, suoni e slides.
La scena è immersa nell’oscurità, sprofonda sotto il segno del notturno. Si respira l’aria di certi Lounge dalle frequentazioni ambigue dell’Est-Village di Manhattan. Si sente quasi odore di rum… Un amore. La fine di un amore. La solitudine. L’essere altrove, lontani da se, implicati in “una differente vita presente”. Diapositive su corpi reali. Le presenze si duplicano nel loro doppio. Inseguono le tracce fuggitive di esistenze precedenti.
Entra una figura di donna con il suo sacchetto di riso comprato in qualche suq marsigliese o in qualche angolo di ChinaTown. Il riso si versa a terra, distilla il procedere lineare del tempo. Le vite si frammentano in subitanee apparizioni, e nelle duplicazioni che corrono sui tagli di luce. Le parole del Discorso di Metz di Philip Dick, già proiettate sul muro, si intrecciano a ipnotici campioni sonori. Resta la necessità di dover andare, partire, fuggire in lentezza, un’unica strada da percorrere.
Città del Teatro/ Adarte propone una versione scorciata dello spettacolo Inside de control, lavoro in cui video, danza e cabaret, convivono in una alterazione caotica di registri, in un’articolazione spesso inconsapevole di linguaggi giustapposti. Carrelli della spesa formato mignon e giacche da uomo abbondanti con spalline (orrore anni ottanta!). È un attacco ai cerimoniali della civiltà di massa, alle tendenze della relaxed-generation, ai corsi di formazione per ogni evenienza. Una stanca satira della società dei consumi che finisce per usarne i cliché. Tra Zelig e qualche vecchia edizione di Fantastico con Pippo, Cuccarini e corpo di ballo a seguito. La pretesa di una distanza ironica fallisce la complicità con lo spettatore.
Dopo le potenti architetture sonore dei tre gruppi precedenti, violenza sensoriale e stordimento percettivo per Tropic, esperimento punk-futurista ideato da Giacomo Bernocchi. Tropic è uno degli episodi di PURESHOWTECH, progetto di sperimentazione audio-visiva. 1500W di luci strombo ad altissima frequenza, due ragazzi ventenni, partiture elettro-pop con anima punk. Pantaloni a cavallo basso e T-shirt… L’unico rumore percepibile ricorda quello delle vecchie pellicole o anche il rumore degli insetti fritti nei neon violetti dei campeggi estivi. Il lavoro, a differenza degli altri presenta, un carattere installativo. Si compie interamente nella breve durata (12’). I due danzatori perfettamente all’unisono, ripetono la stessa partitura assolutamente svincolati da impulsi sonori e accecati dai fasci epilettici della luce. L’assenza della musica, i flash luminosi e ritmati producono una densità acustica che spinge lo spettatore in un nuovo contesto percettivo.
In tutti i lavori suono, luce e video non sono utilizzati a scapito della consistenza corporea, ma neppure impiegati ad esaltare la plastica evidenza del soggetto e delle sue storie. Anche quando sembra di poterle rintracciare, disegnano mondi semi-reali e vite sovrapposte, il trionfo della superficie, dislocazioni di oggetti, tracciano molteplici angoli visuali, anche se non sempre perfettamente a fuoco.