Coreografia pura, nitida traccia per masse in moto. Di corpi torniti e tendini tesi, però, nemmeno l’ombra. O meglio, solo quella. La nera silhouette di Emmanuelle Huynh è la firma sulle pareti bianche di Numéro, scatola espansa per minute meraviglie geometriche tarate per eccesso su proporzioni umane. Nero su bianco, la danzatrice francese si contende i volumi dello spazio ad armi pari, a due dimensioni, con spigoli, rette e superfici rigide, nel buio trafitto da frecce dalla punta avvelenata di fluorescenze verdi, conficcate in pannelli di cartone innocenti, sul perimetro della scena.
Sul contrasto fra masse muscolari e blocchi di materia si gioca la contesa fra la danza e le arti plastiche: non a caso nel parallelepipedo di cartone che duetta con la danzatrice sui tacchi alti si nasconde Nicolas Floc’h, autore della cifra visiva di Numéro. Ma più che di numeri, si tratta di ideogrammi: Numéro è un sequenza immagini ottenute per variazioni combinatorie di linee nello spazio, di segni grafici sulla scena neutra.
Materiali: canne da pesca e cartone. Segni: rette retrattili che si allungano per metri frustando l’aria, in un attimo enormi antenne d’insetto e anima di metallo di delicati oggetti di carta immaginari, fuori e oltre misura. O lance infilzate con sadica precisione nel cartone agonizzante, come nel più classico numero di magia. O gigantesco Mikado, giocato dalla danzatrice stessa, sul suo stesso corpo steso a terra e stretto in nero e lucido latex, in una mise da eroina manga, nel cono di luce di un occhio di bue da numero a effetto.
La Huynh compone con grazia marziale un prezioso oggetto d’arte di sapore orientale, souvenir di viaggi in Giappone e di transiti nelle arti visive. Confezionato con l’onestà di un titolo che rimanda a una dimensione di spettacolo che non ha pretesa di scalfire alcuna superficie, Numéro si spinge al limite del virtuosismo della perfezione estetica, e lì, a due dimensioni, resta.
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