Renate Klett è una fra le maggiori critiche teatrali tedesche. Come freelance, collabora con numerose riviste e progetti editoriali, occupandosi delle arti sceniche europee contemporanee. Ha attraversato con interesse Santarcangelo ·13, festival che negli anni ha frequentato attraversando le programmazioni di più direzioni artistiche. Abbiamo raccolto la sua opinione sui percorsi teatrali di oggi e di ieri, guardando sia alla scena italaiana che a quella internazionale.
Qual è il suo rapporto col festival di Santarcangelo?
Sono venuta per la prima volta una ventina d'anni fa e fin da subito ho apprezzato l'atmosfera che questo Festival è in grado di creare. È una dimensione coinvolgente, in cui è facile avere degli scambi e produrre dei discorsi interessanti sul teatro. Dopo un periodo di assenza, sono ritornata nel 2011 su invito di Ermanna Montanari, che dirigeva il festival di quell'anno, e da lì ho seguito dunque le ultime edizioni. Sono rimasta molto colpita, soprattutto quest'anno, dalla quantità degli spettacoli e dai formati che sono stati proposti: spesso le opere non superano i trenta minuti. Avere ricchezza di proposte è sicuramente positivo, ma mi chiedo se ciò, unito poi alla frammentazione dei contenitori, non sia un ostacolo per la fruizione.
Ho avuto modo di assistitere a spettacoli veramente sorprendenti, come All Ears di Kate McIntosh: nonostante possedesse caratteristiche che in altri contesti non condivido, ho trovato che fosse originale e intelligente.
Renate Klett
Dal momento che la finzione è in crisi, la cosiddetta "partecipazione", il cui obiettivo principale è quello di avvicinare l'arte al quotidiano e all'esperienza dei singoli spettatori, rappresenta forse una strada possibile?
Normalmente provo una profonda idiosincrasia nei confronti del cosiddetto “teatro della partecipazione”, perché lo ritrovo spesso semplificato in un approccio di comodo, un mero tributo al narcisismo dello spettatore. Eppure, quando trovo qualcuno che riesce a “scuotere” dall'interno tale meccanismo, mi convince. La partecipazione a teatro è spesso troppo vicina alle logiche del consumo e della pubblicità. È esattamente come gli spot delle grandi corporazioni: vuole darti l'illusione che tu sia l'elemento importante, che tu – spettatore – hai in mano il potere di scelta... Questa logica risulta accomodante, e conduce il pubblico in un coinvolgimento che in realtà è assolutamente finto, mettendo a repentaglio il contenuto.
Detto questo, non rifiuto il teatro della partecipazione a priori: il problema sorge quando diventa una scorciatoia, quando cioè il meccanismo esaurisce tutto il senso dello spettacolo. Gruppi come i Gob Squad utilizzano nei loro spettacoli elementi partecipativi ma li rielaborano in modo complesso, conferendogli un significato preciso. Può essere che io sia troppo estrema, e forse anche un po' retrograda, ma ritengo che la partecipazione non sia qualcosa che debba essere inserito forzatamente nel teatro, perché è sempre presente in potenza, e si genera spontaneamente quando lo spettacolo funziona ed entusiasma.
Per esempio, tornando a Santarcangelo·13, ho assistito a The Honey Queen di Van Gennip: la particolarità del personaggio e del suo spettacolo sprigionavano un'atmosfera affascinante cui volevo partecipare letteralmente, fare parte, entrarvi; questa è la partecipazione che mi interessa, non quella scontata e vagamente paternalistica di Brian Lobel che costruisce uno spettacolo su Facebook [Purge, NdR].
Cosa pensa abbia generato questi meccanismi partecipativi e che cosa li fa assumere una certa preminenza nel teatro contemporaneo?
Questi sono processi che non si possono indirizzare: il teatro è lo specchio della società. Se pensiamo al dinamismo che caratterizzava gli anni '70 notiamo come si riflettesse in una miriade di spettacoli incredibilmente stimolanti e pieni di furore, di rabbia. Oggi la percezione dominante è quella di un comfort diffuso, e ciò rende la situazione generale delle arti molto più stagnante di trent'anni fa. Io classificherei questo tipo di meccanismi sotto il nome di “teatro del benessere”. Si deve riconoscere che il regime del benessere, nel quale vivono relativamente tutti i paesi europei, conduce quasi inevitabilmente a una sorta di pigrizia della creatività e impone una concezione noiosamente borghese della prassi scenica, proprio nel momento in cui avremmo bisogno di una scossa. Serve un teatro che sia radicale, che esprima un'urgenza forte e, devo dire, a livello europeo è sempre più faticoso trovarlo.
Recentemente sono stata a un festival di teatro a Kinshasa, in Congo, una città e un Paese travagliati da problemi enormi, eppure, anche se non tutti gli spettacoli erano di alto livello, ogni opera era mossa da una necessità che si percepiva come impellente. Ecco, ho invece l'impressione che l'unica domanda che tendenzialmente muove il teatro europeo sia semplicemente: perché non farlo? Questo è troppo poco. Preferisco che un giovane regista abbia un progetto ambizioso e fallisca completamente la sua messa in scena: almeno mi ha mostrato la sua idea, quello che vuole dire, al massimo del suo sforzo. Il teatro non deve essere accomodante, non deve abbracciare e confortare, ma provocare e far riflettere.
Questo ragionamento ci porta a individuare un altro nodo irrisolto, ovvero la possibilità di un teatro politico che rifletta sulla crisi attuale...
Dipende da cosa si intende per “politico”. È chiaro che non è semplicemente trattare alcune tematiche a scapito di altre, ma conferire al proprio ragionamento ampiezza e profondità tali da renderlo dirompente. La portata politica del discorso va di pari passo con la forza e la radicalità di quest'ultimo. Per esempio, penso che il teatro più politico in assoluto sia stato quello di Pina Bausch: ha avuto la capacità di estendere il suo sguardo a interi microcosmi sociali e sconvolgerli dall'interno. Oggi direi che sono i Gob Squad e le She She Pop a realizzare un teatro politico, pur partendo dal privato, da materiali molto quotidiani, ma la rielaborazione che ne fanno conferisce al risultato finale una dimensione totalmente differente. Forse potremmo dire che il teatro diventa politico nel momento in cui scardina il suo dato di partenza, qualunque sia il suo ambito di appartenenza, mostrando i rapporti di forza che lo compongono. Pensando al teatro italiano, trovo che il lavoro del Teatro Sotterraneo sia molto intelligente da questo punto di vista. Tuttavia, la maggior parte degli artisti si attesta su un livello privo di proposte interessanti. Detto brutalmente: è chiaro che siamo in crisi, dov'è dunque la resistenza?
La situazione stagnante di cui ha parlato non potrebbe essere ricollegata anche al sistema dei Teatri Stabili?
Mi sembra evidente che le condizioni di un Teatro Stabile non sono certo quelle ideali per sviluppare liberamente una ricerca d'avanguardia. Eppure, anche da lì escono proposte che mi colpiscono: è il caso di Hermanis o Warlikowski o di altri giovani registi tedeschi che sono in grado di costruire spettacoli originali e spiazzanti. Diciamo che, in generale, si crea una situazione favorevole quando una figura che ha alle spalle un percorso di ricerca inizia a dirigere un Teatro Stabile, poiché acquisisce la posizione e il consenso necessari per provare a rompere con alcune logiche.
Tuttavia, mi pare di capire che in Italia è un po' differente: o gli artisti non riescono a raggiungere quella posizione, oppure, una volta ottenuto quel ruolo, la loro produzione subisce una svolta in senso tradizionalistico. Sono rimasta impressionata, per esempio, dal contraccolpo avuto da Tiezzi [a Santarcangelo ·13 con Scene di Woyzeck, NdR]. Ho seguito i Magazzini Criminali e li considero un'esperienza fantastica, veramente una vetta della sperimentazione europea, con spettacoli pieni di furore e rabbia e non riesco a ricondurre quelle visioni agli spettacoli attuali, più vicine a una pratica quasi conservativa.