Cosa resta dell'uomo se viene ridotto a pianta o macchina? Cosa resta del segno quando lo si è svuotato di ogni referenza? T.E.R.R.Y. dei Pathosformel è un algoritmo minuziosamente strutturato, in cui gli estremi si toccano fino a collimare l'uno nell'altro. L'atmosfera postatomica e fortemente fantascientifica in cui è immersa la scena è anche il riflesso di un'alba primordiale, dove la completa distruzione dei fatti coincide con lo schiudersi delle loro piene potenzialità. Circondati da piedistalli, alle estremità dei quali alcuni led si illuminano alternandosi, sette vasi-carrelli occupano lo spazio e si muovono con una lentezza che definiremmo rituale, non fosse per l'esilità e l'incertezza delle traiettorie. L'essere chiusi in un circolo conferisce infatti agli spostamenti eseguiti una sensazione di sforzo e titubanza, che mantiene lo spettatore in bilico tra la continua promessa di un antropomorfismo e l'implacabile allontanamento da esso. Impossibile rinvenire qualsiasi intento mimetico o di ricerca armonica, eppure, il tutto possiede una scorrevolezza e una fluidità tali da restituire l'impressione di una compiuta narratività.
Si genera così un universo immaginifico autosufficiente, sorprendentemente pieno di senso proprio nell'esatta misura in cui totalmente privo di significato. La glaciale precisione compositiva, pertanto, non conduce al disincanto o al distacco, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma all'intensificarsi della partecipazione. Da questo punto di vista, diviene assolutamente funzionale la presenza, pur sporadica, dei bambini. Questi, con la loro intrinseca innocenza, acuiscono la pietas di uno sguardo volto a ricostruire faticosamente sulle macerie, grazie al quale ogni elemento acquisisce il valore di primigenia scoperta.
T.E.R.R.Y. è un'opera certamente problematica, ma il cui equilibrio formale potrebbe rappresentare l'apertura di possibilità inedite per la ricerca scenica. Essa riesce a svilupparsi in una dimensione di completa astrazione evitando i principali pericoli che ciò comporta, vale a dire l'incapacità di una presa sul reale da una parte e il ricorso a procedimenti simbolici ormai logori e inconsistenti dall'altra. Al contrario, il piano estetico su cui si attesta riannoda a sé sia i fili di un'intelligibilità specifica e inequivocabile che quelli di un'indeterminatezza perturbante ma non dispersiva. In questo modo, nella caduta per niente enfatica di uno dei carrelli, forse l'unico momento di vera discontinuità dello spettacolo, confluiscono a un tempo la perentorietà muta del mito biblico del Primo Assassino e i distopici clamori di battaglie intergalattiche. La rischiosa radicalità del linguaggio, che spinge il discorso sulla soglia del suo stesso annientamento, diviene allora condizione necessaria per recuperarne la purezza, in cui risuona la potente eco di domande che i recenti progressi della Tecnica, evocati dal video iniziale, rendono sempre più ineludibili.