Appena passata la porta della Scuola Elementare Pascucci, che si affaccia su piazza Ganganelli a Santarcangelo, si entra in una fitta boscaglia popolata da sussurranti voci fiabesche. Quando se ne esce siamo nell’arioso cortile allestito con grandi proiezioni dei volti degli spettatori che lo scorso anno hanno lasciato in dieci forme diverse i loro ricordi guidati dalle suggestioni degli autori, con un pavimento-mappa della città e con tubi parlanti e grandi rotoli stesi con le firme del pubblico.
Siamo dentro Art you lost? creato collettivamente da lacasadargilla, Muta Imago, Luca Brinchi e Roberta Zanardo (Santasangre) e Matteo Angius. La scala dell’uscita di emergenza è popolata di cartelli bianchi, con scritte nere, così fitti che per salire si deve fare uno slalom.
Ogni scritta sembra una canzone dei Baustelle o degli 883: le corde sono quelle della nostalgia, la sollecitazione emozionale è trasversale e coinvolge a prescindere dalle generazioni. Se lette da giovani aspiranti musicisti potrebbero essere un buon monito: se un gran numero di persone, che scrivono il loro ricordo adolescenziale ascoltando musica, producono sedicenti versi di canzoni è giusto continuare con i gruppi nei garage per fare prove, ma trovando una cifra propria e non scimmiottando malinconie o truffe altrui. Art you lost? correva un rischio, quello dell’ombelicalità senza via d’uscita; l’installazione, costruita nel cortile e nei corridoi della scuola per essere attraversata, presenta invece una pluralità di tracce, dieci a testa per 400 spettatori, che lascia di stucco. Siamo dentro alla nostra fotografia, a una fotografia di uno spaccato dell’immaginario pop che va dagli anni sessanta agli anni zero: dalla balera alla playstation, dalla gazzosa al lavoro di commesso all’Upim, e non possiamo sfuggirne. Il rispecchiamento dello spettatore non viene indotto verso un’autocritica, che non ci avrebbe fatto male, ma messo davanti a delle mappe di ricordi: ognuno ricostruisca la sua geografia, trovi pure consonanze con gli altri, ma ciò che non sfugge è che tutto è costruito per una fruizione silenziosa e individuale che ci consegna a una solitudine malinconica.
[Art you lost? Santarcangelo 2014 - foto di Ilaria Scarpa]
C’è un vuoto consapevolmente costruito, la memoria ha espunto il campo semantico della politica, tutto il resto c’è: la scuola, l’amore, la cameretta, l’arte, la famiglia; un ritratto corale nostalgico, accordato in un montaggio ben fatto, in cui il riconoscersi non deve essere consolatorio. Ne esce un popolo in cattività, confinato in una riserva emozionale tutta italiana, occidentale, fatta di retromanie, niente di più vero. Immersi in uno stereotipo collettivo non ci siamo accorti che espungendo la politica dal nostro orizzonte abbiamo lasciato che fosse occupato dalla sua degradazione: dal feticcio sostitutivo della comunicazione politica intesa non come strumento ma come fine.
Siamo in cattività, dentro un battage mediatico e istituzionale che spinge tutto verso la semplificazione e dove la capacità di raccogliere consenso diventa tutto, in cui il linguaggio della politica, o sedicente tale, diventa totale e pervasivo. È necessario trovare luoghi che ci mostrino una dimensione diversa. Così è Art you you lost? una mappa collettiva con cui si può scegliere (ma non è automatico) di fare i conti.
Da un lato l’annullamento della politica nel linguaggio pubblico, dall’altra una rimozione dei temi politici in cambio di un album di famiglia fatto di ricordi, icone e stereotipi.
A tutto ciò sembra fare da naturale controcanto la specificità politica di La imaginación del futuro, della compagnia cilena La Re-sentida, uno spettacolo con Salvador Allende in scena che sta per pronunciare il suo ultimo discorso, ma che apre a tutto ciò che sarebbe potuto accadere se il Presidente avesse fatto scelte diverse, in una sorta di gioco del “cosa sarebbe successo se”…
La Re-sentida, che significa il risentimento, sceglie un registro variabile tra il televisivo e il provocatorio con punte che oscillano tra il comico e il tragico. Si percepisce forte tutta la confusione fertile di una compagnia di trentenni arrabbiati, ma che per potersi permettere di esserlo devono ripartire dalla critica a ciò che li ha preceduti: senza se e senza ma contro Pinochet, tuttavia mettendo a fuoco le possibili contraddizioni di un leader, Salvador Allende, che ha provato a attuare l’utopico esperimento di una rivoluzione democratica nel nome del socialismo.
Poteva andare diversamente? È almeno lecito chiederselo? Il Cile ha subito una feroce dittatura lunga 17 anni che si è conclusa nel 1990; le sofferenze, relativamente recenti in rapporto alla storia fascista in Italia, e l’umiliazione di un popolo, portano a discutere anche su ciò che si pensa di Allende e della sua icona. Marco Layera, regista di La Re-sentida, è scettico anche sul dopo: dice che la democrazia pattuita con Pinochet non andava accettata e non va accettata; racconta il Cile come un paese in cui si sta arrivando a un rinnovo ideologico solo oggi, un paese molto diviso e conservatore, dove la legge sul divorzio è stata approvata solo 8 anni fa.
[La imaginaciòn del futuro, La Re-sentida - foto di Ilaria Scarpa]
La rabbia della Re-sentida è animata da una tenace speranza, ma non dall’illusione dei santini. La compagnia persegue un’insoddisfazione trasversale: non vuole né farsi abbindolare né rimanere ferma.
Ieri, nell’incontro pubblico con gli artisti, una ragazza di vent’anni ha detto: «Il linguaggio di La imaginación del futuro io l’ho riconosciuto, ci sono cresciuta: è la televisione e le sue trappole, io sento di aver bisogno di tempo per metabolizzare lo spettacolo. Penso che la mia generazione, quella dei ventenni, sia fuori da questa discussione tra trentenni e sessantenni. Mi sono sentita distante e non so se mi è piaciuto». Layera prima ha provato a rispondere e poi ha detto: «Ti capisco hai ragione. Posso però dirti che a un certo punto abbiamo tolto una scena in cui arrivava una ragazza giovane con una videocamera dicendo che fuori c’era la rivoluzione, poi usciva fuori dal teatro con la videocamera e fuori non c’era niente». Il nostro presente è un deserto fatto degli slogan dei maschi alfa, di fidelizzazione ai brand, di consenso basato sul sondaggio, di politica sedicente: in Italia come in Cile, si abita un paesaggio pacificato, la guerra è finita. Come fare a non rassegnarsi? Se ne può uscire insieme se non ci si compiace della nostra gigantografia in Art you lost?, se, nel rispecchiamento collettivo, vediamo il problema della perdita della nostra identità, del filo con la storia. Abbiamo una prospettiva, ancorché difficile, se l’amaro «Potevamo essere un’eccezione» - del ministro dell’interno in La imaginaciòn del futuro - da passato diventa presente.