Lo scorso anno a Santarcangelo abbiamo attraversato un festival che andava a scandagliare la controversa questione del “teatro della partecipazione e del coinvolgimento del pubblico”, un fenomeno che negli ultimi anni ha incanalato l’attenzione della critica internazionale. Ci siamo raccontati in Art you lost? e manifestati tra i richiami di piazza in Agoraphobia di Lotte van der Berg. Ma abbiamo anche fruito di giochi o performance che intersecavano la creazione di comunità temporanee o addirittura finzionali come Worktable di Kate McIntosh o Purge di Brian Lobel.
Il rischio di alcuni spettacoli puramente “partecipativi”, sottolineava la critica Renate Klett la scorsa estate, è di una certa «falsità buonista» con l’unico scopo di far sentire importante il pubblico, «alimentando un narcisismo sterile e tremendamente pericoloso». La vera partecipazione, diceva Klett, è invece il «far percepire, anche crudelmente, l’impellenza di un discorso che non può essere rimandato». In questo momento sembra che l’ondata di opere che riflettono direttamente sulla partecipazione abbia rallentato la sua frequenza nei festival italiani, e che in particolare a Santarcangelo il coinvolgimento della collettività si sia evoluto in un discorso pulviscolare, interiorizzato, sempre sullo sfondo, che privilegia lo scambio reciproco anziché l’azione diretta. Oggi sembra che l’urgenza degli argomenti portati sulla scena, l’estremità del linguaggio utilizzato e soprattutto la ricerca di un confronto col pubblico stiano gradualmente prevalendo sulle ricerche più liriche e su quelle più formali, ma prive di fremiti politici e sociali. Tensioni che innervano anche la programmazione di Santarcangelo•14, ben evidenti soprattutto in tre progetti fuori palcoscenico: Art you lost? ci ha immersi in una dimensione di profonda solitudine e nostalgia per la nostra memoria collettiva, raccontata attraverso i contributi del pubblico raccolti lo scorso anno; con La disciplina del campo Leonardo Delogu, dopo avere condotto una personale riflessione sul terzo paesaggio, è riuscito a far rivolgere anche lo sguardo dei cittadini sullo spazio indeciso come alterità che resiste, da salvaguardare e da cui trarre ricchezza con la condizione di mantenerlo tale; infine, con Lecture for Every One di Sarah Vanhee, le incursioni a sorpresa dell’interprete Sara Masotti in una dozzina di eventi cittadini – da un gala mondano del Lions Club a un sudato allenamento di boxe – per leggere un testo sulla comunità e sullo stare insieme proprio all’interno di piccole comunità più o meno autentiche, riusciva a far presa sul gruppo di spettatori inconsapevoli, imbarazzati ma in ascolto. Tre esempi di tentativi privi di prepotenza, retorica, indottrinamento e tecniche partecipative a cui il marketing contemporaneo ci ha abituato, che al contrario portano l’occasione di un dialogo e una riflessione in chi ha assistito. A dimostrare come la nuova urgenza di questo teatro non sia più solo quella di resistere, dato che i piccoli spazi di alterità sono già previsti dal sistema, bensì di accompagnare il pubblico fuori dalla platea, non sul palcoscenico ma verso la consapevolezza della necessità di essere in tanti a essere altro. Senza alcuna foga, e senza il bisogno di mostrarsi protagonisti.