«...the new political art (if it is possible at all) will have to hold to the truth of Postmodernism, that is to say, to its fundamental object – the world space of multinational capital – at the same time at which it achieves a breakthrough to some as yet unimaginable new mode of representing this last, in which we may again begin to grasp our positioning as individual and collective subjects and regain a capacity to act and struggle which is at present neutralized by our spatial as well as our social confusion»
(Fredric Jameson)
Ci hanno insegnato che la mappa non è il territorio e che, magari, il tempo è qualcosa di diverso dall'orologio che lo scandisce. Ma è solo grazie a nuove carte che si aprono altri spazi e solo ritmi inediti scolpiranno la e le temporalità a venire. Se esiste un ruolo politico del teatro, al di là degli ormai inariditi serbatoi dell'invettiva e della denuncia, non può che essere quello di una continua battaglia di de e ri-posizionamento, di sincopi e singulti nella ritualità sociale che si fanno battito "straniero'" ma scorrevole. E, più in generale, non si dà ruolo politico che non si confronti con la crisi della postmodernità e con la fine della Storia che abitiamo rassegnati e inermi.
Certo, è opportuno ribadire ancora una volta come i conflitti accesi in questi giorni, da Gaza all'Ucraina alla Siria, ci ricordino quanto la Storia, quella vera, sia lì fuori ad aspettarci. E quanto, a partire dal presente, i discorsi che andiamo pronunciando provengano da una torre d'avorio pronta a sgretolarsi al primo battito d'ali degli eventi. Ma tant'è: non si può negare la sensazione di immobilità che pervade teatro e società insieme. La confusione sotto il cielo, un tempo grande e molteplice, è ora smarrimento solipsistico, repentinamente riassorbito dai tran-tran collettivi.
Da un po' si dibatte sul cosiddetto Postmoderno, se sia effettivamente esistito e su come eventualmente uscirne. Alcuni auspicano il ritorno di un improbabile quanto anacronistico Realismo ("nuovo" solo nelle etichette con cui lo si presenta in ambiente accademico). Altri lo denunciano come ideologia, ulteriore maschera di un capitalismo aggressivo in inesorabile ascesa. Altri ancora ne relegano le specificità al solo ambito estetico, elevando il pastiche a principio cardine di un'arte ibrida, plurale e ironica. I tragitti di tanto teatro degli ultimi anni testimoniano in modo inequivocabile che il postmoderno è ancora bussola imprescindibile, orizzonte inevitabile di ogni proposta scenica. Ma, anche qui, si sente da più parti l'esigenza di fare i conti con esso, di tirare le fila dei discorsi per vedere quale burattinaio ci aspetti alle loro estremità.
ph Ilaria Scarpa
Forse, pochi spettacoli come La imaginaciόn del futuro riescono a farsi carico di tale tensione con una lucidità così spietata e polifonica. Se le accuse dei cileni vanno a bersaglio è solo perché non concedono sconto alcuno, a partire da loro stessi: ci fa schifo quello che vediamo attorno a noi, ma dobbiamo immergerci a polmoni aperti se vogliamo una possibilità di grattare il fondo. Non è questione di umiltà o di onestà intellettuale, è solo strategia, puro furore guerrigliero. Il negativo, così come l'indignazione morale o l'opposizione militante, hanno fatto il loro tempo: li troviamo sulle bancarelle durante le fiere, intenti a far cassa. Il postmoderno è precisamente quel movimento di implacabile riduzione di ogni cosa a "cultura" e, successivamente, della cultura a "merce", tale da decretare l'impossibilità di qualsiasi distanziamento e, di conseguenza, l'impossibilità della critica in quanto tale. E allora, dice giustamente La Re-sentida, che tutto sia merce, materiale grezzo, ma che lo sia veramente stavolta: il sesso e la beneficenza, Topolino e Che Guevara, il cinema e il teatro, Augusto Pinochet e, appunto, Salvador Allende. Soltanto accettando questo assunto di partenza è possibile un'arte politica che non cada subito vittima dell'astuzia postmoderna. Qualsiasi dichiarazione preventiva, distinguo minuzioso o, in una parola, presa di posizione (intellettuale, storica, filologica, financo teatrale, a rivendicare una pretesa eccezionalità della scena che non ha più ragion d'essere) sarebbe stata posticcia e, si è tentati di dire, reazionaria.
Il che ha un evidente corollario, anch'esso squisitamente postmoderno: la totale abolizione del tempo (storico-cronologico) in favore dello spazio, con la conseguente dilatazione di quest'ultimo. L'espediente di rappresentare le ultime ore della Moneda come un set cinematografico è divertente ma affatto divertito: costituisce al contrario la relazione fondamentale che il presente di oggi intrattiene col passato e, per certi versi, col futuro. Non nel senso di una generica pervasività dei media, bensì come metafora di quella "membrana virtuale" con cui lo "spazio globale del capitale" riesce ad annullare qualsiasi distanza e a rendere l'esperienza della realtà perfettamente simultanea alla realtà stessa. La coesistenza di diversi livelli temporali, nonostante sfoci in esiti grotteschi, non ha allora nulla di parodistico o dissacratorio: è semplicemente il tessuto profondo di una società che, tramite l'espansione territoriale illimitata, materiale o simbolica, ha bloccato dall'interno il progresso storico, sia in quanto percezione individuale che in quanto utopia collettiva.
ph Ilaria Scarpa
La Re-sentida fa propri questi principi con precisione quasi chirurgica, come a dire: siamo postmoderni? Beh sì, solo uno sciocco dentro alla famigerata torre d'avorio di cui sopra potrebbe affermare il contrario. Ma non per questo si rassegnano e, anzi, rispondono allo status-quo con le sue stesse armi, ribaltandole. Costruiscono, cioè, una potente macchina scenica che ha nella velocità assoluta la sua cifra caratteristica e, così facendo, distruggono qualsiasi gerarchia significante e ogni centro di riferimento drammaturgico. Certo, gli schiaffi arrivano, e anche pesanti (il governo di Allende come capriccio borghese, la simulazione della fellatio, il "fuck you" a mr. President, etc...), ma sbaglia chi vi legga un'opinione o anche solo una provocazione. Tali schiaffi sono, al contrario, necessarie estremizzazioni utili per strappare qualsiasi punto d'appiglio allo spettatore, cui rimane una fruizione ondivaga ma realmente partecipata. Di cosa si parla realmente nello spettacolo? Ogni possibile nucleo tematico si sfalda all'istante per l'eccessiva velocità degli elettroni che gli ruotano attorno. Ed ecco allora che, spenti i riflettori, quando la miriade di scintille accese in precedenza si riuniscono in un solo, fugace lampo, ci si accorge di aver assistito alla messa in scena del postmoderno stesso.
ph Ilaria Scarpa
In altre parole, la compagnia cilena riesce nell'intento di tracciare un'imponente cartografia del presente, e per farlo non poteva che passar sopra come un cingolato al passato e al futuro (o, meglio, all'immagine che abbiamo di essi). La domanda (la provocazione, ora possiamo dirlo) fondamentale slitta di colpo e non ha più niente a che fare con Allende, la via cilena al socialismo, la televisione o gli Stati Uniti, ma riguarda il modo in cui ci de- (primariamente) e ri- (in seguito, se possibile) posizioniamo nei confronti del postmoderno. Vuoi vedere che, forse, le limitazioni di spazio e tempo costitutive della scena ci consentono di cogliere ciò che, invece, ci è costantemente sottratto nel campo politico e sociale per la loro vastità? Vuoi vedere che, forse, esiste una piccola e fragile 'astuzia' del teatro da contrapporre a quella, sconfinata e poderosa, della ragione storica?
La mappa, abbozzata in modo confuso e sgangherato (ma poteva essere altrimenti?), diventa automaticamente territorio vergine, pronto per la conquista di chi non si vuole adeguare allo stato di cose e cerca una reazione (sì, anche culturale, per quanto possa sembrare velleitario). L'orologio, le cui lancette hanno corso fino a uscire dai propri cardini, si trasforma in tempo senza ritmo nel quale finalmente cospirare (respirare insieme), da spettatori e, forse, da individui. Se un'arte politica ha ancora senso, non può prescindere dal fatto che viviamo in un mondo di simulacri. Che non si chieda al teatro di raccontarci la propria opinione o, ancora peggio, la verità. Solo allora vedremo spuntare da dietro la tenda i piedi di una nobiltà teatrale che alcuni lamentano perduta ma che, invece, è sempre in agguato, come un puma coi suoi artigli.