Dopo l’indagine sui luoghi residuali e sul loro rappporto con la scena (
King, presentato a Santarcangelo nel 2013), il lavoro di Leonardo Delogu prosegue anche quest’anno al festival con
La disciplina del campo, progetto disteso su più mesi, iniziato lo scorso inverno. Delogu, insieme al suo nucleo artistico casadom, sta osservando da vicino l’evolversi del Parco Cappuccini ripensandolo come “giardino”, a partire dalle riflessioni del noto paesaggista francese Gilles Clément: luogo ad alta biodiversità che evidenzia la relazione fra uomo e natura. A Santarcangelo • 14 sono stati programmati vari percorsi: la conferenza/camminata che ha ospitato l’incontro con lo stesso Clément e con il collettivo di architetti CoLoCo; una “camminata a spirale” guidata dai CoLoCo a Mutonia e un incontro su “spazio pubblico e forme temporanee dell’abitare”. Infine un laboratorio aperto a danzatori e performer dal 15 al 20 luglio. Abbiamo intervistato Leonardo Delogu poco prima degli incontri sopra citati, chiedendogli di introdurci al progetto.
Da King a La disciplina del campo: come è nato l’incontro con Gilles Clément?
Quando
King [progetto presentato durante Santarcangelo •13] si è concluso, l’anno scorso, mi sono affacciato dal crinale del Parco dei Cappuccini e ho visto che i percorsi ripetuti dai performer per dieci giorni avevano tracciato un disegno preciso nello spazio. Questo mi ha ricordato che il nostro è un lavoro che ha molto a che fare con l’effimero, ma che può modificare il paesaggio creando un’immagine diversa del luogo con cui entra in relazione. Questa riflessione ha poi incontrato i concetti di
Terzo paesaggio e di
Giardino in movimento teorizzati da Gilles Clément, che raccontano del giardino come spazio poetico oltre che biologico, creato non dalla mano ordinatrice dell’uomo, ma dall’addestramento al non fare, a non esprimere il proprio canone di bellezza. Per questo ho scelto come titolo
La disciplina del campo, perché il lavoro fondamentalmente parla di un esercizio d’ascolto dell’umano e del naturale, di una connessione con lo spazio che determina l’azione.
In che modo siete tornati al lavoro nel parco?
Quella lanciata dal festival è stata una sfida: non solo perché siamo tornati a lavorare nel Parco dei Cappuccini, luogo fortemente connotato, dove avevamo già espresso il nostro potenziale creativo, ma anche perché si sta pensando a un progetto di lunga durata, che esca completamente dai consueti ritmi produttivi. Di fatto, stiamo provando a capire se l’arte performativa possa generare uno spazio condiviso dalla comunità, dando vita a una reale azione di trasformazione; se possa farlo con le persone del luogo, quelle che potranno curarlo e viverlo. Così abbiamo chiesto all’amministrazione comunale di realizzare un’azione durevole nel tempo, il cui primo passo è stato non tagliare l’erba per un anno e favorire un percorso partecipato di rigenerazione urbana.
[Foto di Ilaria Scarpa]
Come si interseca un’esperienza di questo tipo con la tua attitudine teatrale?
È un incrocio che avviene su due livelli, esterno e interno. A un certo punto del mio percorso ho sentito l’esigenza di staccarmi da una dimensione strettamente teatrale, che rimane comunque quella da cui provengo e in cui voglio restare. Ho avuto cioè il bisogno di sondare altre direzioni, alla ricerca di una forma di rinnovamento che percepivo come necessaria. Per fare ciò, sono dovuto partire dalla comunità di persone con cui lavoravo abitualmente e che, per forza di cose, recavano con sé problemi e difetti propri di quel modo di fare teatro che ritenevo insoddisfacente. Ecco allora che, da un lato, il lavoro è consistito in uno scardinamento interno di determinate maniere di concepire e vivere la scena, attraverso una precisa disciplina dei corpi e delle menti. Attività come la camminata o l’accampamento servono a recuperare il lato “selvatico” dell’espressione artistica. Dall’altro, mi sono interrogato sulla forma spettacolare, vale a dire sull’incontro col pubblico. In questo momento mi interessa rompere con la classica dinamica frontale in favore di una dimensione più legata all’esperienza, che possa esplicitare il potenziale trasformante dello spettacolo. In generale, le questioni sollevate da Clément entrano in profonda risonanza con la pratica attoriale. Nel rapportarsi al paesaggio, il tema della riduzione dell’ego riguarda da vicino anche l’attore, il quale, a mio modo di vedere, deve permanere nel presente del proprio sentire anziché rappresentare qualcosa d’altro.
Hai potuto apprezzare, come auspica Clément, cambiamenti effettivi nelle persone che hanno partecipato durante l’anno al tuo percorso?
Il progetto di Clément ambisce a un profondo capovolgimento delle attitudini personali che richiede tempo per realizzarsi. Anzi, una certa lentezza è intrinseca al progetto stesso: si tratta di entrare in un tempo non-produttivo, di ascolto, assolutamente in contrasto con l’accelerazione nella quale viviamo. Si tratta di un percorso di anni, impossibile da realizzare nella durata di un laboratorio. In definitiva, sono rimasto sorpreso dalla risposta dei partecipanti. Penso che abbiamo aperto delle piccole porte, potenzialmente rivoluzionarie per le individualità dei singoli, come per la comunità.