Si scava, perché il teatro è ricerca e perché lo stare in superficie rassicura ma genera insoddisfazione. Si scava perché non si può far altro, di fronte all'apocalisse quotidiana delle metropolitane o alle deserte distese della comunicazione incessante. Si scava perché si crede, forse a torto, che ci dev'essere una qualche verità custodita negli anfratti più remoti dei discorsi. Eppure, sembrano dirci i tragitti diversi ma analoghi di Claudia Castellucci e de L'encyclopédie de la parole, non è possibile pascersi nella contemplazione. Anche una volta raggiunti quei luoghi preziosi e profondi, ecco che si aprono altre gallerie e altri cunicoli. Serve allora l'ascensione, per risalire in fretta e gridare ciò che si è visto tutto d'un fiato. O la danza, per rifuggire leggeri e non scottarsi. È attraverso questi sforzi generosi e complementari che i due spettacoli tentano di rispondere a domande originarie. Esiste una parola che precede il linguaggio, dandogli forma? O, viceversa, un linguaggio che anticipa la parola, sostenendola? Sia il Dialogo degli schiavi che la Suite n.1 "abc" pongono al centro del loro lavoro il “parlare”, non come oggetto di studio o esperienza individuale, ma in quanto rumorosa e avvolgente, quasi “fisica”, presenza del vivere. Il primo, assopendosi volontariamente per disinnescare i significati e restituire alle parole quel primordiale suono che le è costantemente sottratto dalla nostra immediata comprensione; l'attrice, accompagnata solo dalle musiche di Scott Gibbons, declama a mo' di salmo sensazioni, percezioni e vibrazioni incontrate per strada, che piano piano sfociano in pensieri e concetti. Il secondo, per via opposta, moltiplicando e parcellizzando i contenuti, fino a trasfigurarne le specifiche accezioni in un imponente bestiario di idiomi e conversazioni; sotto la guida di un direttore d'orchestra, dei veri e propri atleti della voce combinano a velocità sostenuta frammenti del parlato, alto o basso.
Andare alle radici di un'attività tanto normale ha un che di doloroso, perché ricorda come l'abitudine sia sempre frutto di un addomesticamento. Quale spietata pedagogia evolutiva ci ha reso schiavi immemori delle loro catene o, appunto, coro di una partitura che non abbiamo scritto? Il ricordo, prima sepolto, ora brucia e reclama una consolazione. Può essere l'afflato solenne e impetuoso di un salmo o l'ironia arguta e poliedrica del collage ma, al di là degli esiti, ogni soluzione reca con sé i segni della propria parziale sconfitta. È inutile, avremo comunque bisogno di un'interruzione pubblicitaria o di un intrattenimento spicciolo che ci recuperino dal nostro smarrimento. Non si può sostare davanti all'inorganico. Occorre domarlo subito, anche se ciò significa non poterlo mai afferrare completamente. Occorre imbrigliarlo in una forma e rischiararlo con della luce, che, come afferma la Castellucci, corrisponde spesso a qualcosa di mortifero. È allora un gioco triste quello della parola, ma solo in questa sua tristezza ci disvela ciò che non avremmo voluto sapere.