Al termine della notte della democrazia c'è sempre la morte di chi l'ha attraversata fino in fondo. Socrate viene condannato per aver fatto saltare le contraddizioni della polis, per aver cercato nel particolarismo un valore invece che una minaccia. E mai come oggi, in un momento in cui la radicalità viene sempre più relegata ai margini del politico, si avverte il bisogno di qualcuno che sappia “corrompere” non solo i giovani ma anche i vecchi. La imaginación del futuro (che ha debuttato a Santarcangelo in prima europea) si propone di fare esattamente questo: abbattere, a colpi di una ferocia esplosiva ma al tempo stesso centellinata, l'immaginario a cui intere generazioni hanno dedicato il proprio destino e le proprie passioni. La figura di Salvador Allende, protagonista e “icona sacrificale” dello spettacolo, viene letteralmente fagocitata da una macchina scenica che la strattona, la mastica e infine la risputa in brandelli per il noto epilogo. La compostezza e integrità del personaggio, che pur traspaiono fiocamente in alcuni passaggi, sono risucchiati in un turbinio grottesco di provocazioni stilistiche, azzardi storici e paradossi scenici. Ma, a lato di questa operazione, ne emerge anche un'altra: grazie a parodistiche incursioni nel contemporaneo, la compagnia cilena mette a punto una critica implacabile della spettacolarizzazione delle tragedie quotidiane e della colonizzazione simbolica di stampo americano. La violenza verbale si intensifica e i riferimenti alla cultura televisiva divengono fitti. Viviamo in un eterno crepuscolo degli idoli, sembrano dirci questi punk della scena, tanto sguaiati quanto lucidi nel lanciare le loro accuse. Il punto non è essere imparziali col passato o assumere un atteggiamento critico nei confronti di esso. Il punto è non vivere nella sua rappresentazione, mitica o storica che sia. Tanto vale allora provare a immaginarselo, questo passato, e nell'alveo della sua inedita configurazione immaginare pure il presente e qualche scampolo di futuro.
[La imaginaciòn del futuro. Foto Ilaria Scarpa]
È chiaro allora che il terreno in cui l'opera affonda i suoi artigli non è più quello della memoria, bensì quello dell'interminabile simultaneità cui i vari chiacchiericci mediatici del quasi-ora costringono gli eventi. Mentre un improbabile gruppo di ministri tenta di convincere il presidente a rassegnare le dimissioni, gli ultimi istanti della Moneda diventano un concitato set cinematografico, di modo che la realtà emerga solo per contrasto con l'immagine che essa stessa vuol dare di sé. Ed è proprio dentro tale solco che il furore iconoclasta de La Re-sentida acquista uno slancio propositivo, nel mostrare come l'aggressione insistita di ogni inconscio visivo sia la condizione necessaria per costruirne di nuovi e (probabilmente) più onesti.
D'altronde – in ciò risiede forse l'operazione intellettualmente più arguta dello spettacolo – che differenza c'è, da un punto di vista puramente discorsivo, fra l'esaltazione pur sincera degli “inarrestabili processi sociali” di massa da parte di Allende e l'odierno imbonimento bombardante di televendite e notiziari? In questo senso, non in quanto giudizio storico, va letta la provocatoria equiparazione della via cilena al socialismo a un “capriccio borghese”. Di fatto, tanto la nostra generazione quanto quella dei nostri padri si è adeguata a un immaginario. Che questo immaginario abbia avuto a che fare con l'Utopia o con gli aspirapolvere ha, sotto tale, particolare, finché si vuole esiziale aspetto, ben poca importanza. La imaginación del futuro va contro tutto e tutti, a costo di sfiorare il risentimento sterile o la dissacrazione autocompiaciuta. Ma, in ogni momento, nell'invenzione più eccessiva quanto nella sovrapposizione temporale più rischiosa, si avverte terribile l'urgenza di dover scandagliare fino in fondo un ultimo e improcrastinabile dubbio: è stata la rivoluzione solo un'altra forma di beneficenza?