Un volto senza armi (2005) è il testo di Elfriede Jelinek che introduce il libro fotografico Isabelle Huppert. La donna dei ritratti. È uno scritto dedicato all’attrice protagonista del film La pianista di Michael Haneke (2001), sceneggiato a partire dal romanzo Die Klavierspielerin (1983). Come si relaziona il tuo lavoro a questo intreccio complesso di rimandi?
Ho letto il romanzo dopo aver già in parte lavorato su Un volto senza armi, e dopo aver rivisto il film di Haneke. La policromia della Jelinek, le sue molteplici aperture, l’esuberanza delle immagini che si accendono una dentro l’altra sono divenute l’umore che sottende ogni mio pensiero su questo lavoro. La sua scrittura è uno strattone a ciò che è essenziale, scarno.
Il mio riferimento principale, e anche il mio maggiore ostacolo, è il testo che Jelinek dedica al volto di Isabelle Huppert. Lei si muove svelta tra i concetti. Afferma e mi avvicina a lei. Poi scarta i termini e mi allontana. Continuamente. Per la modulazione di queste corrispondenze e dissimmetrie, immagino una stabilizzazione per mezzo della “terza persona”, un tracciato discorsivo installato nel “she said”.
Un volto senza armi non è un testo facilmente condivisibile. Di ogni affermazione verifico l’affinità con il mio sentire. Dove posso sovrappormi senza sforzo valuto il rischio della ripetizione formale e dove invece mi pare ci sia distanza faccio esperimenti interpretativi. Jelinek, nel suo testo, pur facendo riferimento ad altre opere di cui l’attrice francese è interprete, credo che si riferisca principalmente al film La pianista, se non lo esprime in maniera esplicita lo si scorge dall’accostare le tre opere. Mi interessa addizionarmi a questo terzetto.
Il perno intorno a cui ruota la scrittura di Jelinek è il “volto” della Huppert come luogo di una contraddizione. Il volto, prerogativa dell’umano, è di per se qualcosa di paradossale. In senso letterale è ciò che si volge, che aggira l’abituale. Riunisce gli organi della fisionomia, ma non si riduce all’insieme dei tratti somatici. Marca l’individualità e custodisce l’espressione. Per il filosofo è un «condensatore di significanza». Per Jelinek quello della Huppert è un volto «sguarnito di difese», fatto per «farsi percuotere», ma che sa anche opporre una «strenua resistenza a ogni intromissione». Come muoversi di fronte a questa indecidibiltà tra negativo e positivo, in quel suo devisage in bilico tra la paura di nullificarsi e l’infinito significare?
È chiaro come Haneke abbia lavorato sulla ritrattistica in senso tradizionale. Spesso l’attrice protagonosta è ripresa in posture in cui la sua attenzione segue due direzioni diverse, da una parte il corpo, dall’altra il volto. Penso alle scene in cui Erika insegna: ascolta le esecuzioni degli allievi accanto alla finestra dell’aula di pianoforte. L’attenzione uditiva non è in armonia con l’atteggiamento. Lo sguardo è rivolto lontano e ci fa immaginare una sua ammirazione per ciò che è all’esterno, ma s’insinua in noi il sospetto che in realtà la stiamo sorprendendo in elucubrazionicomplesse, meditazioni professionali, preferenze erotiche. Tutto questo, con la finestra sulla sinistra che invade la stanza di luce veermeriana, è lo spazio nel quale sono chiamati gli spettatori in un’accessibile apertura narrativa. All’apparire di certi tratti di quel volto noi possiamo scendere nelle evasioni interiori del personaggio.
Il volto è al contempo l’irreparabile essere esposto all’altro (è la sua dimensione politica) e l’apertura nella quale restiamo nascosti. È una parte preclusa al nostro sguardo, se non nel dispositivo dello specchio che lo estituisce rovesciato...
Quello che dici mi fa pensare al lavoro dell’attore come una possibilità di modificare il rapporto con l’esteriorità, con il modo in cui si percepisce l’immagine di sé. Per questo è solo appesantito da polvere e contraffazione quando non tiene distante questa potenzialità dal suo ego. Non mi risulta così vero che il rapporto di conoscenza del volto sia solo lo specchio, l’allenamento all’immagine immaginata è un’immagine come quella che lo specchio pone davanti agli occhi. Ma come lo specchio, anche questa immaginazione può essere diabolica. Nel mio lavoro pongo molta attenzione alle possibilità vorticose dell’azione del guardare: essere guardati, diventare interamente sguardo, immaginare che tutto ciò che è intorno sia sguardo e che da questa azione/materia si sia sempre guardati. Il volto inevitabilmente porta uno squilibrio: dal volto che abbiamo davanti aspettiamo il verso, l’azione che ci farà capire la sua intenzione. Si ciberà di noi?
Huppert è per la Jelinek una donna che non ha bisogno di affermarsi. Si limita a “esserci”. Così si smarca anche dalla fama che il suo personaggio pubblico si porta dietro nel gioco delle apparenze: è “attrice in quanto soggetto autentico”.
Del modo in cui Jelinek guarda Isabelle Huppert scorgo delle similitudini con la visione di Georg Simmel, laddove supera chiaramente il paradosso sull’attore perché non intende limitarsi alla sua qualità sentimentale o intellettuale, ma è interessato alla totalità della persona. La negazione della soggettività e dell’arbitrarietà rivelano che “l’individuo è un fattore oggettivo”.
La tua azione precede la proiezione del film La pianista...
Nella costruzione di questo pezzo sono partita dal contesto nel quale il mio intervento è stato immaginato. Si tratta di un luogo già definito dove si svolge un’azione reale: una sala cinematografica, la proiezione, la visione del film. Lì mi incastono. È un concetto scenografico tra quelli che preferisco. Lavoro sull’idea di preludio per la sua autonomia emotiva e formale. Del preludio mi interessa la presunta estemporaneità. Lo traduco dall’ambito musicale: un ambiente che prepara ma non informa, non si rifà al dopo in modo precettistico, non avverte. Porge dati affinché l’elaborazione conclusiva di ciascuno sia più sfaccettata, più ricca di accostamenti autonomi. Più dinamico e meno a tesi è il percorso suggerito allo spettatore.
Un volto senza armi convoca di continuo lo sguardo e la posizione dello spettatore suggerendo un ribaltamento: non siamo noi a guardare Isabelle Huppert, ma è il suo volto a guardare noi...
Lo spettatore brama la visone della celeberrima. Ma potrebbe essere chiamato lui stesso a immaginarsi come interprete, non per avvicinarsi allo status di star o avere qualche minuto di gloria o praticare in piccolo un po’ di protagonismo televisivo, piuttosto per sperimentare il procedimento antropologico di colui che si mette al centro del cerchio e incarna, se richiesto, per raffigurare.
Molte delle affermazioni della Jelinek sembrano rivelare schemi tecnici per l’interpretazione attoriale, che rimandano ad altrettanti schemi esistenziali. Questo testo può essere decisamente visto come un saggio sul lavoro dell’attore. Ma nella mia azione vorrei considerare che la scelta che una persona può fare non sia quella di essere attore, ma al contrario quella di non esserlo. Di sfilarsi da questa possibilità. Voglio tenere in primo piano la potenzialità immaginifica dell’intuizione (che idealmente ci accomuna tutti). Ci permette di concepire (rendere reale) tutto ciò che è immaginato anche da altri. Una delle operazioni dell’attore è di non differenziare la fantasia dalla realtà. Mi interessa dunque essere tra gli spettatori, essere accumunata a loro. Il volto degli spettatori è dunque il pretesto per la pronunciabilità di Un volto senza armi.