Le amanti e l'inconsistenza della retorica sull'amore, Le amanti e l'affresco di un insostenibile grigiore di provincia. E poi? Cosa si agita nel romanzo di Elfriede Jelinek dietro queste contingenze narrative?
Le amanti indaga la meschinità dei rapporti familiari, l'insensatezza della vita lavorativa, della difesa del proprio orizzonte limitato, della propria “casetta”, di questo luogo asfittico in cui alla vita manca sempre un po' di spazio, anche se si prova a ingrandirlo col cemento, in cui la ricerca dell'amore equivale alla ricerca della felicità. Jelinek smaschera questa retorica. L'amore muove il mondo, è vero, ma quali effetti comporta la figura idealizzata dell'amore per le persone reali? Cosa ottengono in cambio Brigitte e Paula, un'operaia e una ragazza di campagna, da una cultura secondo la quale l'unica via per essere felici è nell'investire ogni energia e aspettativa nel vivere la propria vita con un uomo? L'ennesima mistificazione. Oltre la linea dell'obiettivo, quando anche l'obiettivo lo raggiungi, come accade a Brigitte, c'è un incubo ancora peggiore. Qualcuno ha detto che Le amanti è un ceffone ben assestato, e noi siamo d'accordo. Quindi è vero, Jelinek racconta questo, ma da un punto di vista del tutto originale. Protagonista del romanzo è infatti il gioco tra la voce e i personaggi, ovvero tra l'autrice e il lettore a cui questo rapporto viene mostrato deliberatamente in tutto il suo artificio.
Le amanti sembra un esercizio di distanza dal mondo di chi vive una vita sulla soglia, di chi irrimediabilmente sta in disparte, ma altrettanto irrimediabilmente dentro; distanza da un mondo che non descrive – non è l'ennesimo affresco della miseria borghese – ma inventa, costruito a tavolino per essere demolito, dalla vita di due donne calate in orizzonti bidimensionali, eppure riempite fino all'orlo di una pensosità che è tutta sua, della Jelinek. La vera protagonista allora, come dici tu, è la voce narrante, e il suo rapporto, completamente inscritto nel meccanismo delle parole, con quelle creature che si è costruita su misura per mostrare meglio, in forza della fiction, non come esse sono, ma quanto ne è distante. Come si mette in scena tutto questo?
Nell'adattamento abbiamo dato priorità proprio al gioco tra la voce e le due figure femminili. In questo gioco la parola si rivela al massimo delle sue potenzialità. Grande protagonista de Le amanti è infatti anche il linguaggio, originale, sofisticato, ironico, in cui acquista concretezza questo rapporto tra personaggi, vita, parola e voce che non abbiamo mai trovato in nessun altro romanzo. La lingua romanzesca di Jelinek è incredibilmente viva, ha una sua sostanza teatrale, chiede di essere letta, si arrotola su se stessa, è piena di legami; il movimento passa attraverso le parole: sono loro che conducono da una situazione all'altra, dalla vita dell'una a quella dell'altra donna. Allora la voce si è fatta persona e i due profili femminili con cui interagisce invece simulacri umani, perché il nostro obiettivo è di trasporre sul palcoscenico lo stesso rapporto che hanno nel testo, e dare vita all'una e matericità agli altri ci sembra l'unico modo per farlo. Il fatto che la stessa autrice qualifichi Brigitte e Paula come oggetti suggerisce evidentemente delle soluzioni anche dal punto di vista visivo. Proviamo quindi a ricostruire sul palcoscenico la stessa complessità di livelli che c'è nel romanzo. Il rapporto della Jelinek con i personaggi ma anche quello con il lettore: nella lettura, infatti, il sentimento di partecipazione oscilla inevitabilmente tra il disgusto, la simpatia e la speranza che si salvino. Jelinek intreccia questi livelli, presenta la sua scrittura come racconto (si pensi a epilogo e prologo che rimandano all'idea del “ti racconto una storia”), ma continuamente rivela l'artificio, la sua presenza, il suo rapporto con quei personaggi, segnalando al lettore che sta vigilando anche sulla sua reazione rispetto al racconto stesso. In altre parole: lei ha costruito dei personaggi su misura per il suo gioco, e con la sua tecnica narrativa ce lo ha mostrato anche. È quanto facciamo anche noi: costruiamo dei personaggi, ci giochiamo e mostriamo il gioco allo spettatore.
A proposito di artificialità. Gran parte della ricerca teatrale contemporanea è segnata dalla squalificazione della dimensione rappresentativa, del doppio; il vostro particolare lavoro con attori artificiali, allora, quale risposta propone a una drammaturgia che non trova più il suo asse nel meccanismo, per esempio, dell'attore/personaggio?
Questo lavoro si inserisce all'interno di un nostro percorso più lungo nell'universo drammaturgico contemporaneo, da Beckett, a Bernhard, a Pinter, a Koltès, attraverso il quale stiamo indagando l'attore alla rovescia, a partire dall'inanimato. Stiamo cercando il senso della presenza dell'attore attraverso la sua negazione e nel tempo ci siamo resi conto sempre di più che lavorando su gesto, voce, presenza fisica collegando questi elementi alla materia, riusciamo a ottenere della vita. L'attore doppia l'umano, lo rispecchia, noi invece lavoriamo per riprodurlo senza rispecchiarlo. Questi attori artificiali che mettiamo in scena, infatti, questi manichini, questi automi, non sono il doppio di qualcos'altro, sono una entità ulteriore, che nasce dal sovrapporre ai livelli già accumulati nel testo, un altro livello. Nel caso di autori che giocano sugli stilemi del classico come Bernhard, che ancora mette tre persone in un salotto, ad esempio, al livello già secondo dell'ironia, noi ne aggiungiamo un terzo attraverso il nostro artificio. Non è nostra abitudine lavorare su romanzi, ma Le amanti per La complessità e le stratificazioni che dicevamo prima ci fornisce esattamente questo tipo di terreno e tale straordinarietà ci ha convinto a portarlo in scena.
Rossella Menna