Nuvole. Casa., libro-contenitore di libri, scrigno dei fantasmi che aleggiano sui pensieri guida del nostro Occidente, viene concepito da Elfriede Jelinek negli anni della riunificazione tedesca. Chiara Guidi immagina per Nuvole. Casa. uno spostamento. Le parole, dalla pagina alle sale di una biblioteca, ritrovano attraverso la lettura drammatizzata il valore storico e sedimentario del loro suono.
La voce, un coro
Elfriede Jelinek si nasconde nei suoi libri e lì suona. In Nuvole. Casa. è evidente: il processo di scrittura ha una preoccupazione di tipo sonoro e solo la natura compositiva musicale del testo può suggerire un significato che, tuttavia, resta sepolto in ogni pagina. Per comporre questo libro l’autrice ha scelto alcune parole, le ha avvicinate per farle risuonare e il suono è diventato una forma capace di manifestare l’impronta della Storia: il segno storico di un’epoca.
Ma quel segno è legato all’ascolto. Non concetti evidenti. Non trame raccontabili. Al punto che, come quando si ascolta una sinfonia, non si può ripeterne con le parole l’essenza. Come dire ciò che vi è scritto in Nuvole. Casa.? Eppure la ripetizione di alcune parole si fissa nella mente come un ritornello: Noi... Casa... portando significati diversi. Ad esempio da ogni Noi, strappato dalle pagine di autori diversi, sale una tensione diversa. La sentiamo al punto che quando ci conduce nell’orizzonte del germanesimo, il Noi ci inquieta come può inquietarci un suono, per cui è una sensazione difficile da tradurre con altre parole. Il Noi ferisce. Ma come provarlo? Come attestarne la forza che nasce dalla ripetizione ossessiva?
Come se si levasse un coro con la bocca così aperta da diventare una voragine nera.
L’autrice stessa, pur essendo un individuo, è una coralità. Imita alla perfezione lo stile di Hölderlin e quasi perde se stessa per somigliare alla sua poesia, ma quando cita dei brani del poeta li deforma. Ad esempio, quella che era una prima persona singolare diventa una prima plurale, i congiuntivi diventano indicativi. A sua volta, questo lavoro di spostamento fa eco a quello di Heidegger... Ma non sono questi riferimenti a guidarmi nella lettura: mi piace, invece, l’idea che attraverso le parole faccia dei carotamenti nella Storia, che vada a strappare alcune pagine per cogliere tutte le possibili voci che la Storia ha dato alla parola Noi e che, infine, ne faccia una musica, forzando le parole, e suonandole.
Biblioteche fantasma, tracce sonore
La foto di un’opera di Claudio Parmiggiani, Delocazione, accompagna questo lavoro. Vi appaiono “fantasmi” di libri, la cui antica presenza è resa visibile dai residui di cenere lasciati da un incendio sulle pareti di una stanza. Parmiggiani mette in scena l’assenza, un vuoto che è la traccia residua di un pieno spostato, solo immaginabile.
Quale forza lega Delocazione a Nuvole. Casa.? Nel testo le parole ricorrenti rimandano alla storia, o meglio, alle presenze nascoste di una particolare storia. Qualcosa accade dentro le parole del testo: lì vi è un’ombra che trema. C’è un vuoto che si sente. E quel vuoto nasce dai libri. Il libro è il protagonista di Nuvole. Casa. Per questo leggo il testo in alcune biblioteche storiche: voglio nascondere il corpo stratificato del libro della Jelinek dentro questi musei della parola. Nelle biblioteche i libri tremano. In silenzio.
Nuvole. Casa., dal punto di vista della comprensione, è un libro ispido. Duro. Non mi chiedo perché l’autrice abbia scelto determinati filosofi e perché con le loro parole abbia deciso di fare un discorso sul germanesimo. Ciò che mi attrae, invece, è il fantasma sonoro di una parola primitiva di cui la storia ha modificato la densità emotiva. Le parole di Nuvole. Casa. restano per lo più di difficile comprensione eppure suonano in modo drammatico, creando un panorama di percezioni varie e stratificate. C’è qualcosa che si sente, ed è su questo che Jelinek lavora, su quello che si sente al di là delle parole, le quali vengono però utilizzate nella specificità della loro presenza. Esse evocano significati musicali. A me interessa riflettere su questo punto: come una suggestione musicale strappata dal suo contesto e resa antidrammatica possa diventare drammatica e come un’azione bloccata possa, nell’intimo della sua immobilità, continuare a vivere. A tremare, appunto.
Wolken(kuckucks)heim, il canto nascosto
L’autrice immagina una messa in scena in cui il testo viene detto da una voce alla radio.
Dentro la radio nasconde una voce.
La seppellisce lì dentro.
C’è in questa indicazione un’idea di ascolto che va oltre le orecchie e che, passando attraverso la mente del corpo, crea una vena nascosta che si muove e va giù, giù… Verso il fondo. Cosa c’è di più profondo che nascondere un corpo vivo dentro una casa? Nel film la Leggenda della fortezza di Suram di Paradžanov, un bambino viene seppellito vivo dentro le mura di una roccaforte perché questa possa risultare inattaccabile nel tempo. Dietro questo racconto c’è un pensiero non lontano da quello che nella tradizione romagnola portava a nascondere delle monete dentro i muri delle case. Dentro le parole della Jelinek vi sono nascoste delle viscere. Quelle viscere bruciano, come bruciano le note di un contrabbasso.
Il contrabbasso di Daniele Roccato non accompagna ma tormenta la mia lettura perché le parole sono parole ferite. Sono lì perché qualcosa le ha strappate dal loro luogo di origine.
Tutto vive all’insegna di qualcosa che è delocato, portato altrove.
Il titolo originale, Wolken. Heim., nasconde in sé un taglio. La parola Wolkenkuckucksheim, che in tedesco sta per “albero della cuccagna” è privata del suo centro, kuckuck, quel “cuculo” qui sottratto alle “nuvole” e alla “casa”. Resta il desiderio, manca il canto degli uccelli. Forse l’autrice l’ha nascosto dentro il testo e chiede a noi di ascoltarlo.