Trasporre sulla scena un romanzo come I fratelli Karamazov, fra i più complessi e sfaccettati che siano mai stati scritti, non è certo impresa semplice. Il problema è sintetizzare una materia letteraria estesa, costruita tramite giustapposizioni di personaggi e situazioni in contrasto, in un discorso teatrale lineare e scorrevole. César Brie dimostra la sua abilità, riuscendo ad assegnare un ritmo unitario e leggero al movimento di elementi fortemente differenziati fra loro.
La tentazione poteva essere quella di penetrare nel capolavoro di Dostoevskij attraverso una porta d'accesso secondaria, ovvero privilegiare un personaggio a scapito di altri, imprimendo così una prospettiva eccessivamente individuale a vicende che sembrano invece fondare il proprio senso nella coralità. Brie opera una scelta precisa, e lo evidenzia fin dalla scena iniziale. Gli attori avanzano lentamente sul palco disposti su un'unica fila, cantando, illuminati da tinte che rimandano vagamente alle suggestioni del Quarto Stato: l’atmosfera essenzialmente popolare, le forte plasticità delle figure, la progressione dal buio verso la luce ricordano il celebre dipinto. Subito, dunque, l'autore argentino ci restituisce una visione uniforme d’insieme in cui tutti i personaggi si situano sullo stesso piano. Ma c'è di più: dopo questa potente istantanea di gruppo lo spazio scenico comincia a differenziarsi, mettendo in moto un raffinato meccanismo di continui scambi di posizione fra gli attori, che ora si trovano fuori dal centro d'azione, ora lo riempiono, ora si siedono defilati, così che ogni collocazione nello spazio assume un significato definito. I protagonisti si offrono ogni volta all'attenzione dello spettatore accompagnati da un altro personaggio che li presenta in terza persona. L'impatto, dunque, non è solo di carattere generalmente globale. L'espediente di riassumere le vicende delle varie figure tramite le parole di un soggetto esterno a esse (sebbene interno alla storia nel suo insieme), pur essendo dettato perlopiù da esigenze di economia narrativa, carica i personaggi della loro implicita dimensione fittizia (letteraria e teatrale). Lo spettatore si trova allora in uno stato di tensione rispetto alla sua posizione nei confronti degli avvenimenti: punto di vista distaccato e onnisciente o figura distante nella consapevolezza che ciò a cui sta assistendo è in fondo gioco e illusione? Proprio partendo da questa frattura che la “danza registica” di Brie può dispiegarsi e svilupparsi in tutta la sua forza.
La scenografia è ridotta a pochi oggetti: un palco essenzialmente spoglio, lungo il cui perimetro si situano alcune panche su cui sostano gli attori fuori scena; dei fili che pendono dal soffitto ai quali spesso i personaggi si legano trasformandosi in marionette; tre bambole a grandezza reale che sostituiscono le figure infantili che ricorrono nel romanzo. L'efficacia dello spettacolo si fonda sui gesti degli attori ma, soprattutto, sulla strutturazione e articolazione dello spazio. I vari momenti della storia si svolgono in punti sempre differenti del palco e la disposizione delle figure viene sapientemente modulata in modo che gli elementi che la compongono concorrano a creare l'impressione visiva di assistere da angolature sempre diverse. L'artista argentino opera quello che in gergo cinematografico potrebbe essere chiamato un vero e proprio “montaggio interno”, sfruttando al meglio la reale profondità di campo che gli offre l'ambiante teatrale. Agisce frammentando le direttrici di senso delle azioni dei personaggi, utilizzando gli oggetti come limiti metaforici di spazio o tempo, scavando intermezzi di sospensione attraverso le musiche. Il minimalismo delle componenti scenografiche diventa allora essenziale, affinché i corpi e gli oggetti possano veicolare con maggior libertà il processo di differenziazione delle inquadrature. Processo che ha il suo culmine in almeno due punti di notevole inventiva: il tavolo della taverna costruita con due panche disposte di traverso che dà la sensazione di un punto di vista diretto dal basso e il dialogo fra Aleksej e lo starec Zosima, rappresentati seduti ma con la schiena appoggiata a terra, come fossero osservati dall'alto.
Brie sceglie dunque di immergersi profondamente nell'eterogeneità dell'opera letteraria, tentando di renderne tutti i toni e le sfumature. Lo spettacolo, infatti, grazie agli espedienti appena descritti, riesce a configurarsi come ingegnoso caleidoscopio di registri, in cui episodi riflessivi di trasognato esistenziale convivono accanto a siparietti di comicità quasi slapstick. Il regista lega abilmente queste suggestioni attraverso un montaggio che molto spesso riflette esigenze di armonia estetica piuttosto che di logica narrativa. Il passaggio da un timbro a un’altro di segno opposto viene risolto all'interno di una grammatica del movimento che riesce a mantenersi quasi sempre in equilibrio. Forse in questo senso va vista l'eliminazione dell'episodio centrale del romanzo, La leggenda del grande inquisitore, omessa per non turbare la delicata euritmia degli altri frammenti.
Il meccanismo, sebbene necessiti di regole molto precise per il suo funzionamento (e che, a lungo andare, sembrano emergere allentandone l'efficacia) condiziona in modo essenziale il metodo di indagine sui personaggi. La loro evoluzione e lo spessore dell'introspezione psicologica che lo spettacolo può offrire si concretizzano non seguendo un andamento lineare, ma presentando la natura delle loro azioni e sentimenti a diversi livelli e distanze che ciclicamente si ripetono. Le vicende, dunque, come per esempio quella dell'amore tra Dmitrij e Grušenka, vengono messe in luce analizzandone il lato comico, il tragico, tra momenti in cui i protagonisti si muovono come burattini o quando i loro affetti affiorano con realismo; lo sguardo sulle varie facce è frammentato in diverse prospettive che si alternano, cosicché la conoscenza che gli spettatori fanno dei protagonisti procede più per induzione che per deduzione.
Questo implica un risvolto molto importante: ovvero che l'intensità delle scene maggiori non è preparata dallo svolgimento dell'intreccio, ma dalla consequenzialità dei registri. Perciò l'impatto emotivo di un episodio trae la propria forza dal fatto che il tono con cui è narrato si trova in contrasto con quello delle vicende che lo precedono. In questo probabilmente sta l'intuizione maggiore di Brie. Di fronte all'estrema difficoltà di rendere i chiaroscuri che nell'opera letteraria sono frutto di premesse narrative sviluppate in modo quantitativamente consistente, egli fa derivare l'efficacia degli episodi da elementi del significante, che acquisisce così un’influenza fondamentale nel senso etico della storia.
Quando lo spettacolo si dipana nel finale, questo aspetto conduce l'autore di fronte a un interrogativo ulteriore. Si tratta infatti di tirare le fila del discorso, tenendo conto dell'importanza assunta dal significante nel costruire la logica dell'opera. Brie crea la scena del processo a Dmitrij “appendendo” tutti gli attori a fili come marionette, procedimento già ampiamente sfruttato in precedenza (sebbene non con tutti i personaggi simultaneamente). Risolvendo in questo modo l'esito degli eventi, ovvero posizionando i protagonisti su un piano che allo spettatore appare fortemente oggettivizzato, Brie decide allora di chiudere il cerchio, riportando la vicenda alla situazione iniziale. Chi assiste viene sospinto nuovamente all'esterno della storia, e la sua partecipazione ad essa torna ad essere quella del gioco e della finzione.
La brillante intuizione iniziale di riporre l'evoluzione del significato dell'opera nello sviluppo della sua resa artistica trova la sua conclusione organica nella riaffermazione delle premesse. Viene da chiedersi, però, se tutto questo non produca un calo di tensione. La vicenda potrebbe compiere un passo avanti verso la realtà e i sentimenti del pubblico; invece si ritrae, offrendoci sì un'esaustiva visione globale, ma distogliendoci forse dal confronto con le domande ultime che costituiscono il nocciolo del capolavoro di Dostoevskij.
César Brie, insomma, si preoccupa di restituirci un affresco finale che esprima «la pietà e l'amore» da cui si è lasciato condurre nel ritrarre questa pluralità tragica. Ma, così facendo, ci impedisce probabilmente di voler bene al piccolo Iljuša, sepolto nell'ultima scena. Almeno quanto gliene ha voluto lui.