Ultimamente molti spettacoli teatrali prendono forma da una riflessione sulla tv e sulla potenza della comunicazione per immagine. Siamo entrati, nel giro di pochi anni di monopolio televisivo, in un labirinto di disconnessioni mentali e di incapacità critiche, per non parlare di incapacità di produrre pensiero. Siamo catturati dalle immagini, abbocchiamo a tutto ciò che vediamo, ci giriamo solo quando c’è qualcosa da vedere. La parola è concessa solo nelle occasioni di leggero buonismo mediatico e di gossip paparazzato, meglio ancora se fa scappare una “lacrimuccia” già stabilita sul copione. Ciò ha fatto sì che si cominciasse a pensare che si possa fare a meno della comunicazione bilaterale, quella del dialogo ragionato, che non necessita di impatti visivi diretti.
È indubbiamente difficile riuscire a ricreare questa condizione a teatro, in cui l’ascolto e la riflessione sono i padroni di casa, ma direi che gli Orthographe – il gruppo ravennate di Alessandro Panzavolta e Angela Longo – con Una settimana di bontà _stagione 1, in prima assoluta al festival Vie 2011, ci siano riusciti.
Al limite tra arte visiva e arte performativa, gli Orthographe portano gli spettatori fuori dalla platea ma sempre dentro il teatro, nei corridoi dove ci sono i camerini e gli ingressi alle balconate. Se nella prima sala ci si può intrattenere con un inedito gioco da tavola ideato dalla compagnia, “Cobain Affaire$$$”, per investigare sulla morte della star del grunge (ironia sul meccanismo di affari che la morte di una celebrità è in grado di innescare), subito dopo si inizia a vagare senza meta né scopo. In una stanzetta si trasmette, a ripetizione continua, la partita dell’Italia ai Mondiali di calcio del 2006, in un'altra c’è un collegamento con chissà chi attraverso una videochat, su un televisore un vecchio (lo scrittore americano William Burroughs) spara colpi di pistola a un’immagine di Shakespeare. Gli spettatori sono come un branco di pecore che gira per il teatro, guarda nelle stanze aperte, sbircia in ogni singolo spazio, non sapendo bene cosa fare (qualcuno ne approfitta per andare in bagno, altri cominciano a indispettirsi e vanno via) ma percependo che qualcosa sta per accadere. Aumenta non la tensione, ma la curiosità: ci si accorge subito che questo gioco alletta, è intrigante. E infatti, dopo un po’ di pazienza, ecco che accade qualcosa: un uomo inizia a cantare in un camerino con la porta chiusa, una ragazza ascolta una canzone di Michael Jackson contemplando in ginocchio una sua foto, da un’altra parte stanno trasmettendo video di ragazze che ballano sulle note di Fame, da una stanzetta si sentono le urla di un ragazzo contro lo schermo di un computer, coprendosi il volto con fogli di giornale con impresse le facce di attrici e attori deturpati. Come voyeur totalmente coscienti di esserlo, ci si muove da una stanza all’altra, incuriositi da quei soggetti e da quei suoni, in attesa che qualcosa accada o ricominci, che un attore inizi a parlare, ad agire. Si torna nella stanza della partita, percepita come una delle poche vittorie nazionali, dove alcuni spettatori sono entrati nel loop della visione, ci si siede a vedere i video delle ballerine come fossero i provini dell’ennesimo talent-show per dilettanti, ci si ferma fuori dalla porta del camerino dal cui interno si sente il canto stonato di qualcuno che, se disturbato dall’occhio di uno spettatore, si ferma imbarazzato. Sei entrato nel “gioco”, quello della società mediatica di cui sei frutto, quello che ti vuole per forza investigatore della morte di Kurt Cobain (in fondo quando muore una rockstar dobbiamo per forza trovare un colpevole!). E in men che non si dica ti rendi conto che stai ripetendo gli stessi movimenti e ripercorrendo gli stessi passi da almeno un’ora, attratto dall’attesa, spinto dalla curiosità, intrigato dalle immagini e dalla ripetitività dei quadri performativi, senza sapere neanche il perché stai continuando a girare e a guardare.
Poi decidi che hai visto abbastanza ed è ora di uscire ma trascorri un’altra mezzora salutando tutti gli spettatori: quello che hai conosciuto all’inizio e ti chiedeva «ma sai cosa sta succedendo?», quello che ti ha chiesto chi fosse a cantare dentro il camerino, la signora che affianco a te guardava il vecchio cacciatore sparare all’immagine di Shakespeare e con cui hai riso fino alle lacrime, i ragazzi che ti hanno invitata a sederti sul divano per guardare i video, le ragazze straniere con cui hai condiviso lo sguardo dubbioso alla visione del pazzo che urlava al computer. E tanti altri ancora.
È bastato così poco per essere così socievoli e ritrovarci a comunicare come se fossimo tutti esseri umani?
Carolina Ciccarelli