Abbiamo incontrato il regista e autore francese Pascal Rambert, che ha presentato a Vie 2012 il suo ultimo spettacolo, Clôture de l'amour. Due attori entrano dal fondo del palco, quasi senza guardarsi. Si immobilizzano in punti diversi della scena, distanti, rigidi. È Stanislas Norday a rompere il silenzio, silenzio che sino alla fine dello spettacolo tornerà solo in forma di pausa breve e rara: Stan sta lasciando Audrey, il loro amore è terminato, ma per dichiarare la fine hanno entrambi bisogno di un'ora di parole da riversare sull'altro. Prima lui, poi lei. Un duello ai rimproveri, ai sensi di colpa, alle promesse
«Volevo vederti volevo dirti che questa cosa è finita / non va avanti / non si può andare avanti» è l'inzio paradossale di Clôture de l'amour, di cui Rambert ci racconta i processi di scrittura e interpretazione del testo, approfondendo la sua poetica registica e drammaturgica.
Clôture de l'amour nasce innanzitutto da una drammaturgia, scritta sui corpi dei due attori protagonisti, Stanislas Norday e Audrey Bonnet. La regia sembra appoggiarsi sulla struttura del testo, senza aggiungere ulteriori indicazioni. Qual è stato effettivamente il lavoro registico per questo spettacolo?
In Clôture de l'amour ho lavorato per sottrazione togliendo le scene, i costumi, i personaggi, la storia, il tema, il trucco, la luce. Due esseri umani entrano in scena e devono essere "reali" e "credibili" per due ore. Volevo creare bellezza attraverso una dinamica molto semplice: mettere in scena due persone che si parlano.
Ho scritto un testo per due attori talentuosi, basandomi sulle loro qualità interpretative. Ci siamo subito resi conto che il dispositivo creato non chiedeva altro che una presenza "super intensa". Tutto questo è molto diverso da ciò che ho fatto nei miei spettacoli precedenti, anche se i processi di cui vado in cerca, i dispositivi che immagino, sono sompre orientati a rendere efficace la semplicità. Lavoro molto in Giappone perchè amo la cultura non barocca, senza eccessi di segni e di ninnoli; questo gusto non mi impedisce di seguire altre forme di teatro, per esempio quello tedesco, pieno di scenografie, costumi e musiche, ma è una scelta che non pratico.
Quando pensavo alla messa in scena di Clôture de l'amour, sapevo che i due attori sarebbero entrati insieme in una sala prove, sapevo che per un'ora intera lui avrebbe detto a lei che la stava lasciando. Sapevo che lei lo avrebbe ascoltato e poi gli avrebbe risposto. È stato possibile realizzare una tale intensità solo grazie ai due interpreti, che infatti sono parte della concezione dell'opera.
Anche il lavoro sul corpo è molto consistente: l'ascolto è comunque un'azione, per quanto apparentemente passiva...
È un'azione enorme. In effetti per me Clôture de l'amour è uno spettacolo di danza, una coreografia. Perché lo dico? Quando i coreografi lavorano su una partitura organizzano una sorta di scrittura fatta di frasi che corrispondono ai movimenti del corpo. Allo stesso modo, quando scrivo pretendo che le frasi (verbali) abbiano effetti visibili sui corpi in scena. Le parole hanno un effetto sul corpo, sono corpo: è la parola che fa scaturire i gesti degli attori, i loro movimenti.
A partire da tali considerazioni, desideravo dimostrare come le parole possano agire sul fisico fino a distruggerlo. Non siamo obbligati a picchiare qualcuno per ferirlo. Il testo gioca molto su questa possibilità, fino a diventare paradossale. Stan dice ad Audrey: «Non ti sto picchiando, ti sto solo parlando». Ma di fronte a lui, Audrey è completamente distrutta, ripiegata, stremata. È il potere delle parole che mi interessa.
I due personaggi sono una coppia nella vita ma anche dei professionisti della scena. La dimensione del mestiere teatrale è più volte evocata nello spettacolo, ma solo nel finale avvertiamo il reale passaggio da una quotidianità a un livello più stringente di finzione. Qual è, nelle sue intenzioni, la relazione che intercorre tra la finzione di due personaggi che ci dicono di essere una coppia nella vita e la "vera finzione" di due attori che lavorano insieme?
Dal modo stesso in cui parlano della loro professione, credo che il testo renda evidente che Stan è un regista, o forse un autore, mentre Audrey è un'attrice. I loro ruoli non sono però dichiarati, scritti in maniera esplicita, perché era più interessante lasciare ambiguo questo dettaglio. Il rischio di tale scelta, ovvero non definire i ruoli sociali dei personaggi, rischia di far perdere alcuni spettatori, perché la mia esperienza mi fa pensare che gran parte del pubblico ami sapere da subito, se non già da prima, di che cosa si sta parlando, desideri conoscere la "storia" prima di entrare in teatro. Io sono invece convinto che fare esperienza dell'arte, che si tratti di danza, teatro o di una visita a un museo, significhi affrontare la possibilità di un cambiamento. L'arte è un'esperienza che sposta chi la esperisce, è una relazione in cui ci si può perdere. In Clôture de l'amour avverto che gli spettatori sono sul punto di sfiancarsi (l'attore parla, parla, parla e dice che parlerà ancora), è proprio questa l'esperienza. Non è uno spettacolo di circo, dove devi solo guardare e farti incantare: lo spettatore si confronta con ciò che ha davanti, correndo il rischio di perdersi.
Per tornare alla domanda precedente, la questione del teatro nel teatro non è declinata nel suo senso più classico: la dimensione per così dire “metateatrale” sembrava più un contrappunto, una breccia che apriva un nuovo livello di realtà...
È esattamente così. Rifletto molto sulla realtà all'interno dei miei spettacoli. Da una parte sono certo di produrre della finzione, della fiction, dall'altra cerco sempre di ottenere quello che potrei chiamare "un coefficiente di realtà". È per questo che i miei spettacoli sono ambientati in posti veri, reali: credo che si debba sempre stare nel luogo in cui accade ciò che viene raccontato. Inoltre non c'è luce, solo i neon, che hanno l'effetto di rendere più grande lo spazio e concentrano il tempo nel momento reale dell'azione. Loro arrivano e si parlano. Non c'è altro. Tutto accade davvero mentre accade lo spettacolo.
Questo coefficiente di realtà si riflette anche nel lavoro degli attori: anche se privi di un sottotesto autobiografico, la qualità della loro relazione è autentica, pur essendo evidente il contratto di finzione stabilito col pubblico.
Per rispondere a questo stimolo, posso riflettere brevemente sul teatro che vedo attorno a me. Sono molto interessato da estetiche anche distanti dalla mia, eppure mi trovo spesso di fronte a opere che mi suonano "false". È molto difficile vedere un teatro che mostri porzioni di verità.
L'unica indicazione che ho dato agli attori è stata: «Entrate, prima parla lui, poi lei, e reciprocamente vi ascoltate». Questo è il dispositivo.
Mi sono chiesto che cosa potrebbe accadere se un alro regista mettesse in scena Clôture de l'amour, se possa essere ambiendtato nel loft di una capitale europea, in una stanza con televisione e alcolici. Certo che è possibile, ma non lascerebbe intatto l'essenziale. Mi sono ripromesso di fare proprio questo, nel mio teatro: nient'alto che cose essenziali. Sono regista da ormai 30 anni, conosco benissimo gli effetti delle scene, delle musiche, di una battuta o di un'altra sul pubblico, ma questo modo di procedere per “effetti” mi dà il vomito. Anche io voglio scuotere le persone, ma solo attraverso l'essenzialità delle relazioni.
A un certo punto il significato delle parole sembra ridursi a vantaggio di una dinamica sonora. Come affronterà le traduzioni del testo previste per altri paesi, per esempio per la prossima produzione Ert con Anna Della Rosa e Luca Lazzareschi?
È vero che spesso il testo si abbandona alle sonorità della parola, perché non credo nel senso in maniera assoluta. Se immaginiamo il testo teatrale come una struttura, voglio provare a dimostrare l'inanità della struttura stessa, l'assenza di forza del suo processo. Il mio desiderio è realizzare un'architettura con una materia che si presenti da sé, una materia che contenga già gli elementi che la autodescrivono, un teatro che porti in sé la sua essenza, la sua necessità di esistere. C'è un momento particolare, nel testo, in cui il senso cede davvero il passo alla sonorità. All'interno del monologo di Audrey ho inserito una una sorta di crasi di tutti gli sms, i messaggi, le piccole frasi che si dicono due innamorati all'inizio della loro relazione: in quella parte è come se tutti questi messaggi fossero stati schiacciati, sovrapposti, innestati l'uno nell'altro, e dal momento che li ho rimontati in modo serrato mancano dei nessi. Ho fatto come gli innamorati: la fine dell'amore ci fa sentire come sul punto di morte, in cui si dice che scorrano dentro di te tutte le immagini importanti di una vita: davanti a questa fine Audrey rivede e ripete tutti i segni del loro amore.
Originariamente il testo era composto di una sola frase senza punteggiatura. Ho inserito delle interruzioni solo per renderla più leggibile al momento della pubblicazione in Francia. Per quanto riguarda le future produzioni, la traduzione è un processo con il quale ormai ho familiarità. Adesso credo che il testo vada consegnato, abbandonato. C'è sempre qualcosa che si perde, bisogna accettarlo.
Intervista realizzata con la collaborazione di Jennifer Malvezzi e Andrea Massironi
Si ringrazia Stefania De Leo