Presentiamo alcune conversazioni introduttive al progetto CODA - Teatri del presente, pubblicate nell'omonimo catalogo stampato dalla Regione Emilia-Romagna nel maggio 2011 e curato da Altre Velocità.
La teoria è il muscolo
Conversazione con Sonia Brunelli e Leila Gharib di Barokthegreat
Nella ricerca di Barokthegreat avete ostinatamente indagato l'unicità della Figura. Ora per la prima volta aprite il vostro lavoro a plurime collaborazioni: chi sono questi indigeni che abitano la scena insieme a te?
Sonia Brunelli: La miccia che ha innescato la creazione di Indigenous è si è subito resa manifesta come un “fare insieme”, una condivisione esperienziale e energetica che ha tenuto vivo quel fuoco che brucia dentro durante lo spettacolo, e che si trasforma in continuazione.
Da qualche tempo io e Leila Gharib sentivamo la necessità di indagare una dimensione prima di tutto sonora più percussiva e battente, una sorta di ritmo nudo e originario, mentre da un punto di vista visivo volevamo approfondire la Figura messa in scena in Fidippide, un nostro lavoro precedente, una figura che però si è subito consumata e sciolta nel nuovo habitat collettivo e di cui sono rimaste solo le linee espressive. Indigenous infatti ha subito dimostrato un carattere quasi biologico: portiamo in scena un'espressività pura e primitiva, una necessità completamente organica che si rivela come flusso energetico potente e continuo. Si tratta della necessità e dell'impulso biologico, di vita e di presenza, di ogni figura.
Anche le collaborazioni sono nate con questa stessa modalità. Dafne Boggeri, Francesco “Fuzz” Brasini e Giorgia Nardin sono in qualche modo indigeni del nostro stesso ambiente, abitano il nostro stesso immaginario. Condividiamo la stessa ricerca, anche se questa si esprime in modalità diverse. La collaborazione nasce quindi come condivisione dell'esperienza: il focus è completamente sull'esserci, sull'essere presente nel momento, e nel lasciare emergere da questa immersione nella situazione gli impulsi energetici originari. Così a Giorgia, danzatrice ma anche autrice di sue performance, non è stato chiesto di imparare o di realizzare una sequenza di passi, ma di attraversare un'idea. Alle figure in scena si richiede di interpretare il tempo, ovvero di vivere la loro presenza in relazione al suono, esattamente come fanno Leila e Francesco che sono totalmente immersi nella loro azione. L'input di base è stato quello della torsione, pattern che si riconosce in tutto il lavoro, ma poi tutto è sgorgato come flusso energetico, come movimento assolutamente istintuale.
Dafne è la terza figura di Indigenous e, come artista visiva, ci ha aiutato a inventare la scena come impaginazione non solo sonora e fisica, ma anche di luci e materiali. Tutte queste dimensioni si amplificano a vicenda nell'abitare lo spazio e il tempo dello spettacolo nella sua componente più relazionale e vitale.
Questo innesca un tipo di relazione molto particolare con lo spettatore: un'adesione e una partecipazione istintiva che lavora sotto la consapevolezza. Una relazione assai difficile da trovare a teatro dove spesso si privilegia un coinvolgimento più mentale o emozionale.
Leila Gharib: Quello che vorremmo ricreare per il pubblico è una sorta di immersione totale. Ci piacerebbe che gli spettatori si perdessero completamente in questo ambiente fatto di movimento e di suono, in una completa adesione alla musica. Non c'è una storia da raccontare, ma vorremmo ricreare un'esperienza condivisa. In questo senso è un lavoro che va guardato, o esperito, nel suo farsi, nel suo passare da una dimensione all'altra. Quello che Sonia definisce «interpretare il tempo», ciò che fanno le figure in scena, è completamente legato alla dimensione della musica live. Si partecipa a questo spettacolo così come si assiste a un concerto, totalmente immersi nella situazione. Per noi musicisti questo interpretare il tempo è semplicemente esserci e suonare, ovvero suonare ciò che si è, una dimensione che ti assorbe completamente. Questo coinvolgimento è la matrice energetica dello spettacolo e ci piacerebbe che accadesse qualcosa di simile anche agli spettatori.
S.B.: Similmente lo sviluppo del lavoro, una volta che ci siamo riuniti, ha avuto una dimensione molto libera, istintuale. Per la prima volta l'idea di partenza non ha attraversato un'esplorazione concettuale, come per esempio la scrittura e la sovrascrittura del movimento in Origin, ma è sgorgata tutta dal bisogno di essere nel momento, e vivere in questo ambiente. Ovviamente c'è un'elaborazione teorica, e Piersandra Di Matteo è stata fondamentale in questo. Ma tutti i testi letti, i video e gli altri input visivi sono stati attraversati e lasciati sedimentare come influenza sottile, senza una traduzione scenica puntuale. C'è una teoria anche complessa dietro Indigenous, ma la “teoria” più importante è l'esserci nel momento.