Le parole scorrono come un fiume inarrestabile e rievocano un sentimento ormai spento che non potrà più ricominciare. Stan e Audrey sono i protagonisti di Clôture de l'amour, lo spettacolo che il regista e drammaturgo francese Pascal Rambert ha presentato in prima nazionale al Festival Vie grazie alla sinergia con il progetto Face a face. Le frasi pronunciate dagli amanti arrivano a ferire il corpo dell'altro come pietre:«Ormai sull'armonia vissuta con te c'è il più feroce disaccordo / la discordia più profonda». I due monologhi si susseguono all'interno del testo e sono l'unica forma di comunicazione possibile tra persone ormai incapaci di dialogare tra loro. Stan si agita, cammina avanti e indietro, si avvicina a Audrey e subito si allontana, si inginocchia ripetutamente e gesticola in modo frenetico. La ragazza rimane in piedi davanti a lui, immobile, ascoltando a testa bassa e singhiozzando silenziosamente. La coppia non ha nessun tipo di contatto e, anche quando i due si avvicinano, c'è una distanza costante generata dalla scomparsa del sentimento. La luce bianca prodotta da neon che pendono sopra le loro teste crea un ambiente irreale e freddo, come se il tutto si svolgesse in un obitorio o in una gigantesca cella frigorifera. Il respiro degli interpreti segna il ritmo di una drammaturgia che procede per immagini ed esalta il ruolo della composizione poetica, in cui frequenti ripetizioni e allitterazioni portano alla luce una trama sonora capace di riempire il grande spazio vuoto nel quale i personaggi sono immersi («Si sarebbe diventati rossi / sì noi saremmo diventati rossi / ma chi arrossisce più oggi / chi diventa rosso / tu amore qualche volta arrossisci»). La banalità della situazione contrasta con la retorica artificiosa che parole e movimenti contribuiscono a creare: lo spettatore non sprofonda mai all'interno della scena ma, come un voyeur, è costretto a rimanere fuori e guardare tutto dal buio della platea. Vive la vicenda in diretta, senza effetti di suono o di luce che gli palesino la finzione e quando esce percepisce dentro di sé il peso di quanto ha visto e sentito. Rambert si "limita" a portare sul palco la vita reale e lo fa rimanendo a sua volta nascosto, mostrandosi solo nella precisione degli attori e nella bellezza delle parole da lui composte.
Gli interpreti, Stanislas Nordey e Audrey Bonnet, prestano ai personaggi i propri nomi, dal momento che la composizione testuale è stata concepita a partire dalle loro stesse qualità fisiche. L'ambiente teatrale è continuamente rimarcato e negato, in una dimensione che si muove a cavallo tra vita e rappresentazione. I corpi incarnano figure che non hanno nulla di autobiografico, ma non sono neppure personaggi: la recitazione è sostituita dal loro semplice vivere. Il confine tra realtà e finzione è rimarcato dall'irruzione in scena di un gruppo di bambini, che interrompe il monologo di Stan e canta una canzone di Whitney Houston, prima di uscire ringraziando gentilmente per la disponibilità. La naturalezza dei piccoli contrasta con l'impostazione e lo studio sul rapporto corpo-voce degli interpreti: la relazione tra scena e platea cambia improvvisamente e lo spettatore ha un tempo di respiro prima che inizi il secondo monologo. Quando Audrey inizia a parlare, infatti, la tensione accumulata durante il primo monologo si trasforma in energia che vibra nell'aria: «Ormai sull'armonia vissuta con te c'è il più feroce disaccordo / la discordia più profonda». La sua voce tesa e nervosa colpisce e piega il corpo di Stan, al quale non resta che crollare a terra. Il finale è un atto di pudica svestizione che assume toni quasi onirici: gli attori si tolgono le magliette e indossano un copricapo piumato, guardandosi negli occhi prima del buio che chiude la relazione.
Andrea Massironi
Laboratorio Per uno spettatore critico, Vie 2012