L’ottava edizione di Vie, insieme all’ultimo anno del Progetto Prospero e a Coda – Teatri del presente, ha rinnovato la sua attenzione verso progetti di promozione e formazione di giovani artisti accogliendo la proposta di InzioAzione: alcuni allievi dell’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio d’Amico e di Milano Teatro Scuola Paolo Grassi sono stati accolti alla Corte Ospitale di Rubiera insieme a tre registi di fama internazionale per una “vacanza scolastica”. Queste giornate sono state “spiate” da un gruppo di osservatori (attori e spettatori), coordinati da Piergiorgio Giacchè, che hanno tentato di restituirne un racconto.
INIZIO
Scuole, corsi e stage si affollano, recitano informazioni, appuntano, riempiono e contano le ore, rilasciano attestati e farciscono curricula vitae. Un costo sancisce l’inizio di un percorso che sa già, o quantomeno si aspetta, la sua conclusione: qualcosa sarà dato in cambio, qualcosa sarà sistemato, definito alla fine di quel tempo speso. Così si presenta e si vende la formazione nella maggior parte dei casi. Funziona forse, spesso è obbligatoria, ma come pensare che possa bastare, che non sia controproducente per quei “mestieri” che abitano la complessità, che lavorano nella messa in questione più che nella pienezza o nella definizione di sé? Eppure anche nel teatro le offerte non sembrano differenziarsi molto: ovunque si organizzano costosi corsi di pochi giorni per registi, drammaturghi e attori. Pur senza sminuire l’importanza degli strumenti insegnati e senza cadere in approssimative generalizzazioni, in questa situazione le parole di Carmelo Bene non possono che risuonare come un monito: «Non si può apprendere nulla nei modi usuali della comunicazione o della compravendita […]. Ci si può semmai “iniziare” nel senso fisico e per nulla magico di muovere i propri primi passi – sempre all’indietro – verso la sottrazione, la minorazione, la liberazione progressiva da quanto si è per l’intanto, persino involontariamente, appreso». InizioAzione ha preso le mosse da queste affermazioni e le ha trasformate in un invito.
La proposta fatta agli allievi della Silvio D’Amico e della Paolo Grassi è stata di uscire dalle loro scuole per qualche giorno, di aprirsi e immergersi nell’incontro, di prendersi e perdersi in una “vacanza” guidata da tre registi provenienti da paesi diversi. Pascal Rambert, Theodoros Terzopoulos e Antonio Latella hanno scelto liberamente le modalità dei loro rispettivi contatti coi ragazzi: l’unica richiesta è stata di organizzarlo come un primo giorno di lavoro (o come il giorno prima), come l’inizio di un percorso. I giovani attori, registi e drammaturghi hanno attraversato questi inizi, iniziazioni a poetiche, politiche ed estetiche teatrali differenti; hanno vissuto la vicinanza all’origine di una creazione, sono stati spinti alle motivazioni originali (non psicologiche) della loro scelta, delle loro azioni. Questo è stato possibile nella velocità di un giorno, dove nessun percorso è stato portato a termine, ognuno è stato lasciato in levare; questo è stato possibile in quello spazio, in quel tempo disegnato dalla vacanza: un tempo vuoto, che non cerca un fine, non diventa “mezzo per…”, ma è aperto alla gratuità e libertà di ogni accadere qui, ora.
Proprio per questo gli incontri tra maestri e allievi sono potuti diventare tre tentativi di “scolpire” il tempo per raggiungere l’autenticità del momento: per quanto strutturata in un percorso costruito, sistematico, per quanto raccontata, o realizzata, ogni pratica iniziata è stata un colpire, fratturare, mettere in discussione, sottrarre per raggiungere il profondo di un istante.
La vacanza ha mantenuto il suo carattere esclusivo di eccezione alla regola, conscia della sua difficile riproducibilità. Proprio per questo InizioAzione ha voluto appropriarsi di quel poco tempo a disposizione, liberarlo, col rischio di perderlo, in una ricerca che sembra uscire dai propri confini e investire la vita del singolo, della storia, ma che non può che essere centrata sul teatro, sul suo essere effimero e fragile, sul continuo ricominciare, non può che toccare l’incessante rinnovarsi dell’attore sulla scena.
GIORNO I: Pascal Rambert
Il regista francese ha scolpito con le parole quel tempo “vuoto”. Un giorno composto, educato, solo a tratti indiscreto in cui il suo scalpello sonoro ha tentato di scavare in quei corpi giovani, scoprirne i vuoti, le densità nascoste. Nella sala della Corte Ospitale le sedie sono state disposte circolarmente e, nel più classico dei modi, un inesorabile senso orario di presentazioni, Rambert ha inaugurato il suo incontro. «Chi sei?», «come ti chiami?», «che fai?» e i giovani allievi di regia, drammaturgia, gli attori, hanno cominciato a dirsi, definirsi, a descrivere il loro percorso, come spesso accade per dare inizio a un incontro. Ma questo inizio si è prolungato. Rambert, colpito dall’eco, dal senso di alcune parole, le rispediva al mittente, ancor prima che Stefania De Leo, che l’ha accompagnato, potesse tradurle. Le presentazioni non si sono mai concluse. L’artista ascoltava attentamente i tentativi di mettersi in un discorso, si fermava su frasi o vocaboli per scoprirne il movente, chiederne il «perché»; guardava lo sforzo di dirsi velocemente e ne sottolineava le mancanze, gli istanti di “verità”, forzando gli allievi a ri-mettersi in discussione.
Il suo ostinato indugiare su quei modi di raccontarsi e definirsi spingeva ciascuno al di là di una narrazione superficiale o pre-costituita, tendeva a parole che si riempissero di chi le pronunciava. Ogni espressione o vocabolo era scagliato indietro, rigettato a chi l’aveva utilizzato, nel tentativo di riportare ogni vissuto a un nucleo di “verità”, a un sentire più originario e forse indicibile. Ma questa sorta di “archeologia di sé”, come l’ha chiamata il regista, non aveva un intento psicologico: l’attenzione era rivolta alla presenza fisica, al suono presente, a quanto corpo e voce riconoscessero o disconoscessero la storia contenuta nelle parole.
Rambert ha messo in atto un’accanita lotta col linguaggio e ha chiesto a ciascuno di affrontarla con le parole stesse, paradossalmente gli unici strumenti affilati a disposizione. Obiettivo era il raggiungimento di un dire pieno, “vero”, che rendesse, anche solo per un istante, la realtà del detto nel qui e ora, nella carne piegata o esaltata da quel suono. Il reale da lui inseguito non è che quel vissuto quotidiano, non riproducibile, su cui spesso si è soffermato durante il suo incontro: il silenzio, lo scricchiolio delle travi, il cellulare lasciato acceso a vibrare, i rumori esterni.
Di fronte ad aspiranti registi e drammaturghi, l’artista francese ha voluto sottolineare come tale sforzo, tale lavoro riguardasse anche loro, al pari degli attori. Si è infatti descritto come un etologo: la ricerca del drammaturgo, del regista, sta nel trovare quelle parole piene, quelle situazioni che possano essere abitate a pieno da chi sta sul palco. Ma ciò può essere fatto solo nell’ascolto, nell’osservazione, con sommo rispetto per quell’animale che vive la scena: non serve guidarlo strettamente, imprigionarlo, ma occorre costruire delle condizioni, più o meno stringenti, che lo portino a scoprirsi, a raggiungere autonomamente la posizione nella quale penetrare la sua realtà da vicino, in cui fotografarlo. Ma questo non basta, perché l’attore non può darsi una volta per tutte, come in una fotografia: quest’animale sta nella fatica del continuo ricominciare e replicare, nel rimettersi in questione ogni volta, sempre più in profondità. È quello che accade in Clôture de l’amour, il cui testo è stato donato ai ragazzi nella traduzione italiana di Bruna Filippi, più volte usato come esempio: gli attori hanno a disposizione un fiume di parole che a ogni replica devono attraversare da capo nella loro pienezza, dalle quali devono sempre di nuovo lasciarsi segnare, scolpire, ogni volta in maniera diversa, ogni volta fin nel vivo più profondo.
Così Rambert ha voluto concludere provocatoriamente, quasi a onorare quel mestiere faticoso del re-inizio, a dire che l’obiettivo non è afferrabile una volta per tutte: «finito il giro orario ora potremmo riiniziare il tempo, presentarci di nuovo, per provare da capo a esprimerci, a trasmettere qualcosa».
GIORNO II: Theodoros Terzopoulos
Se per millenni gli assi che hanno retto la civiltà sono stati Dio, la natura e la città, oggi del primo non resta che un cadavere, la seconda è piegata, ridotta a brandelli, e a trionfare non c’è che la dimensione urbana. Theodoros Terzopoulos, accompagnato da Paolo Musìo, attore del suo Éremos, ha aperto la seconda giornata di InizioAzione con una chiara visione del mondo: un’analisi della situazione storica, sociale, politica, economica, artistica e spirituale che ci troviamo a vivere. Secondo l’artista greco la prospettiva metropolitana che caratterizza quest’epoca frena la fantasia, l’energia, il pensiero, li riduce a mediocrità: è il trionfo della piccola borghesia, dei bisogni insignificanti e dei desideri effimeri. In questo mondo, senza una prospettiva alta, spirituale (non in senso teologico) verso cui dirigersi sembra non esserci spazio per la grandezza, ma solo per l’autobiografia. Questo, ha spiegato il maestro di Makrygialos, naturalmente si riflette e si può leggere nell’arte, dove non c’è più musica o poesia, ma solo letteratura: non ci si occupa più di rispettare il tempo, il ritmo, non si ascolta più la lingua, il suo bisogno di essere retta da consonanti, aperta da vocali, ma si guarda solo la propria vita e si pensa possa bastare. È così che la tragedia si è ridotta a dramma, che il regista è diventato tiranno, che il drammaturgo è stato innalzato a unico creatore; è così che è scomparso l’attore e con lui il teatro. Tutto il lavoro si è trasferito nel pensiero, in testa, nel testo, così che le idee sembrano non circolare più: la frenesia postmoderna le sostituisce con una quantità di piccole trovate affastellate l’una all’altra. Riempendosi di dispositivi tecnologici a sostenere o a sostituire la recitazione di attori insignificanti, i palchi si sono svuotati.
Terzopoulos, però, ha più volte sottolineato come la sua invettiva non fosse rivolta a ogni utilizzo della tecnologia sul palco, ma a un certo modo di abusarne, di farla diventare protagonista, sovvertendo la centralità dell’attore, senza il quale non ci sarebbe teatro. Nelle sue parole, chi vive sulla scena diventa “la torre” che si proietta nella verticalità a separare e unire terra e cielo, che si scolpisce nel tempo, unità e cesura di inizio e fine: Krònos castra Ouranos, lo divide dalla sua unione con Gea, ma con questo suo gesto la terra viene fecondata un’altra volta dal cielo e tra le spume del mare nasce Afrodite. Attore è chi abita la spinta all’oltre, chi non parla per il pubblico, come nel cabaret, ma parla agli spettatori per scavalcare con (insieme e attraverso) essi l’orizzonte, oltrepassare i limiti, raggiungere Dionysos. Il suo stare sul palco è quindi una lotta col mondo con la platea, ma prima di tutto con sé, col proprio corpo e con la propria voce. Queste sue uniche armi a disposizione per prime devono essere liberate, affilate, rimesse in contatto con la loro energia profonda. Per questo l’artista greco ha proposto un metodo, degli esercizi, una téchne (tecnica e arte) indispensabile al mestiere dell’attore, per liberare attraverso il respiro la forza accumulata e bloccata in sette zone del corpo che ricalcano i sette chakra: genitali, pube, diaframma, petto, gola, maschera e cervello che il respiro deve attraversare verticalmente, deve aprire e armonizzare in unione.
Gli allievi hanno così impegnato tutto il pomeriggio in questa “ginnastica” che all’interno di Attis, la sua scuola ad Atene, ricopre un ruolo centrale tanto da diventare costume, habitus, modus vivendi. Infatti nelle parole di Paolo Musìo hanno potuto sentire come, portata sul palco, tale téchne diventi vibrazione, calore interno sprigionato, corrente animale che permette al nulla, al silenzio di parlare, all’orizzonte di schiudersi e far piena la comunicazione.
Terzopoulos ha proposto un metodo che è la sintesi risultante dei suoi inizi e ha invitato ciascuno a non considerarlo uno schema granitico, ma un tassello di quella che sarà la loro sintesi personale. Necessario, però, che tale lavoro coinvolga non solo gli attori, ma anche chi si occupa di regia e drammaturgia. La consapevolezza del corpo, della voce, rende attivi, porta la vita a una dimensione più alta che è già un atto politico, porta il teatro a una dimensione più alta: fuori da ogni basso naturalismo, fuori dal postmodernismo, verso una regia di corpi, drammaturgia di suoni, verso una vera modernità che sia l’esplosione del nucleo del classico.
Anche qui, però, non c’è un traguardo da raggiungere: il lavoro ricomincia ogni volta, rinasce e muore, costantemente. È in questo cadere, in questa familiarità con la fine, in questo dover ogni volta trovare la forza di ridiventare inizio che si comprende forse al meglio il continuo domandare dell’artista greco: «E voi, siete disposti a morire per l’arte?».
GIORNO III: Antonio Latella
Il terzo e ultimo giorno ha portato i ragazzi della Silvio d’Amico e della Paolo Grassi fuori dalla Corte Ospitale, in un teatro indaffarato per le prove e per gli ultimi preparativi di un debutto: all’Herberia di Rubiera, già da qualche giorno, Antonio Latella era in prova con la sua compagnia Stabile Mobile per la prima assoluta di Black, Match e Tara, ultimi tre movimenti del progetto Francamente me ne infischio. Il regista campano, infatti, ha offerto come “iniziazione” una giornata di lavoro, anche se non proprio all’inizio. Ha messo gli allievi in contatto con una “scultura del tempo realizzata” e ha mostrato in che modo è possibile, cosa implica, praticamente, raggiungere uno spettacolo: scegliere o creare un testo, scrivere al fianco di un dramaturg, trattare con la produzione, allestire una scena, togliere o aggiungere microfoni e amplificatori, frenati ed esortati da problemi tecnici, stimolati e ostacolati dal lavoro con le attrici, dalla risposta del palcoscenico.
I giovani registi, drammaturghi e attori si sono accomodati in platea, come pubblico, a guardare Black e Match, due spettacoli molto diversi fra loro: da un lato un concerto pop a tre voci costruito di eccessi e d’intrattenimento, dall’altro un incontro misurato fra tre personaggi retto da parole, ascolto e silenzi. Seduti sulle poltroncine, però, i ragazzi sono stati più che semplici spettatori e hanno potuto sentire come nasce, si alimenta e può diversificarsi un percorso artistico che sgorga da una stessa visione del mondo e del teatro. Latella, infatti, ha introdotto a lungo entrambi i movimenti andando a fondo nell’attività di Stabile Mobile: a cominciare dall’ideazione, passando attraverso improvvisazioni e scrittura, fino al debutto, in ogni momento la creazione si avvale dell’apporto sinergico di tutti i componenti della compagnia, senza una rigida divisione in ruoli. Fulcri del lavoro sono l’autore e l’attore, due ruoli indipendenti ma indispensabili l’uno all’altro: il primo si avvale degli attori, rimaneggia e amplia spunti e stimoli dalle improvvisazioni, fissa ogni particolare su carta (testo, movimento, luci, costumi, scene ecc.); il secondo prende questa partitura e gli dà vita, la ri-crea in scena. Questi due perni sembrano bastare al teatro, tanto che, secondo Latella, gli attori recitano perfettamente alla prima lettura; ma l’abitudine, la costruzione, la perdita di meraviglia rompe la magia. Compito del regista è tentare una messa in scena che possa mantenere, ricreare lo stupore iniziale. Per fare questo non c’è altro metodo che la ricerca, ovvero il tentativo: chi mette in scena è artigiano prima che artista, è colui che tenta di fare e costruendo fa i conti con la possibilità del fallimento. Solo sopravvivendo agli sbagli, attraversando, vivendo gli errori si può creare qualcosa. Per questo è un mestiere che non può reggersi su principi o perni fissi, ma che si forma nel movimento nel cambiamento: unico impegno certo è quello faticosissimo di rimettersi in discussione, ricreare ogni volta la pagina bianca da cui partire. Lo scardinamento è l’unico elemento capace veramente di formare.
Per questo, concludendo con alcuni consigli, l’artista campano non ha potuto che ribadire lo stimolo al fare, anche prima di ogni sicurezza produttiva: lavorare con registi disposti a crescere insieme agli attori, con attori pronti a formarsi insieme ai registi, senza giudicare né essere giudicati, ma aperti alla libertà dell’errore. Anche se forse, ha chiuso amaramente Latella, creare una realtà lavorativa del genere sembra più facile all’estero.
RE-INIZIO
La vacanza scolastica è terminata dopo tre giorni, ma in quel rapido attraversamento di paesi, visioni, lavori e parole, niente ha trovato una vera conclusione: come stabilito, ogni cosa è stata lasciata senza un (o una) fine, anche perché probabilmente non c’è, come ripetuto da ogni regista. Allora è più corretto chiedersi se qualcosa è cominciato, se c’è stata quella sottrazione, quel togliere che, solo, avrebbe consentito un nuovo inizio: il tempo vuoto è stato vissuto in levare?
InizioAzione è stato uno scolpire quel tempo: parole, corpi e opere gli scalpelli che hanno tentato di scardinare, mettere in discussione, spingere ciascuno oltre limiti e atrofie, rimuovere e rendere possibile la pagina bianca. Un ricominciare da capo, ogni giorno, che si tematizzava come necessità del lavoro stesso. InizioAzione è stato abitare e vivere la Corte Ospitale (centro produttivo e residenza artistica) e le quinte del Teatro Herberia; è stato l’attraversamento di un Festival con tre spettacoli internazionali: Mariti di Ivo van Hove, Clôture de l’amour di Pascal Rambert e Divina Commedia di Eimuntas Nekrošius. Infine, l’iniziazione è stata anche nell’incontro e confronto fra la scuola e l’accademia, fra registi, drammaturghi e attori, fra creatori e osservatori.
È successo. Qualcosa è accaduto in questi tre giorni di “vacanza scolastica” in cui non si è fatto altro che parlare di “lavoro”, “compito”, “mestiere”, “artigianato”: spiazzamento o conferma di quanto già saputo, i ragazzi sono stato messi in contatto con la propria scelta, hanno assaggiato il loro prossimo inizio.
La domanda proposta, quindi, va forse rivolta a ciascuno degli allievi che hanno partecipato, ma al contempo nessuno deve essere costretto a bruciarla in una risposta, a chiuderla in un racconto, a ridurla in biografia, psicologia. Ogni ragazzo porterà con sé quanto percorso, libero di operare tagli, di creare la propria sintesi, perdersi in nuove sculture, darsi nuove sottrazioni, nuovi inizi: tutto questo sarà suo, personale. Se una fessura è stata aperta sull’orizzonte occorre rispettarne la fragilità.
Per questo, il quarto giorno, durante l’incontro sul Diario delle vacanze, a tentare una testimonianza, a parlare di questo progetto/proposta, sono stati gli spettatori, osservatori e attori coordinati da Piergiorgio Giacché. Chi scrive, esterno, corre il rischio di disegnare parabole che rispettino più la teoria che ciò che è accaduto, di arroccarsi in un giudizio o, quantomeno, di essere affrettato. Occorre anche qui, quindi, una minorazione, un passo indietro, un ricominciare che si liberi in qualche modo di quanto vissuto per valutare la portata non privata di queste iniziazioni. È stata questa la sfida che abbiamo tentato di riportare in queste righe: nella consapevolezza di non poter essere definitivi o definitori, tentare di restituire ciò che è successo, aprendo varchi o segnando altre prospettive, tanto da lasciare il racconto in levare: sottrazione e nuovo inizio.