Il punto credo sia proprio questo: un rapporto di fiducia reciproco a cui l’Ert desidera ora portare un valore aggiunto che sta nel contatto privilegiato con il pubblico, con i giovani innanzitutto, ai quali questo festival si rivolge. Noi cerchiamo di offrire possibilità, possediamo un sistema di conoscenze internazionale che vogliamo mettere a disposizione di tutti.
C’è poi in fondo un altro discorso che è quello della storia del nostro teatro. Da questo punto di vista l’Italia non è mai stata una realtà stabile ma un contesto variegato, fatto di compagnie girovaghe, c’è sempre stato un gap che ancora oggi si riflette sul pubblico, per molti aspetti decisamente tradizionale rispetto all’estero. Credo che riguardi tutta la vita del nostro paese, un sistema che matura molto avanti. Nel teatro ci sono generazioni di registi che bloccano quelle che vengono dopo. Tiezzi di fatto è stato l’ultimo, dopo Tiezzi non c’è stato ricambio. Si tratta di fatto di un sistema vecchio che quando si apre al nuovo lo incapsula in contenitori, come il modello festival.
Vie in questo senso vuole essere diverso, non una costruzione a tavolino ma una realtà in movimento, che cresce mentre la fai, insieme al desiderio dello spettatore di fare un’esperienza. Sotto questa prospettiva il contenitore può farsi interessante, diventa l’occasione per la città di mescolare i due pubblici, come accade solitamente nei centri maggiori, quali Milano, Torino o Roma. L’importante è trovare un’alchimia, un giusto equilibrio per tenere una finestrella aperta verso qualcosa che va salvaguardato.
Numerosi quest’anno sono gli appuntamenti con la danza. Apertura del teatro o nuova frontiera del teatro stesso?
Non la definirei una nuova frontiera. Credo piuttosto che la danza abbia permesso di sviluppare il linguaggio contemporaneo delle ultime generazioni, dove tutto è molto e frammentato. Si tratta inoltre di un linguaggio particolarmente adatto al piccolo formato, dove più semplice diventa la sperimentazione e più stretto si fa il rapporto attore-artista-spettatore. Una vicinanza fisica coinvolgente che piace ai giovani e offre un tipo di teatro molto partecipato anche per chi per la prima volta vi si avvicina.
Come si colloca il cinema in questo nuovo scenario?
Di solito quando si pensa a una stagione teatrale il cinema interviene come qualcosa di esplicativo rispetto al teatro. A Vie sarà diverso. Si tratta di artisti che usano i due linguaggi contemporaneamente, come accade oggi, basta dare un occhio al sito di “ateatro”. E’ sempre un unico progetto artistico in cui i due linguaggi s’incontrano, qualcosa di molto diverso rispetto al passato. Pensiamo a Gabriele Lavia e alla sua versione cinematografica della Lupa di Pirandello…quella sviluppata era un’idea di cinema. L’idea dei contemporanei è completamente diversa, parte dalla sovrapposizione. La piccola sezione in collaborazione con il Circuito Cinema è un fatto importante. Da un lato vuole indirizzare la città verso il grande schermo, dall’altro crea due prospettive diverse per il pubblico. Le opere che saranno presentate sono tutte piccole ma di grande qualità. Il film di Pippo, presentato a Roma ad esempio, non è sorprendente ma sorprende. Il teatro-danza e il cine-teatro sono cose che i contemporanei frequentano con difficoltà, è giunto il momento di mettersi in discussione.
Modena, Carpi e Vignola. Vie apre il teatro alla provincia. Dietro questa proposta si nasconde una strategia culturale precisa? Forse il tentativo di intercettare un nuovo pubblico?
Quasi. Lo scopo è quello di mettere per una volta in relazione lo spettatore con gli artisti contemporanei. Non vogliamo un festival d’elíte né tanto meno spettatori di “serie a” e di “serie b”. La presenza nel territorio non è di consumo del teatro ma prima di tutto di cultura teatrale. Esiste già un humus in cui molte persone sono preparate. Carpi e Vignola rientrano perciò sempre nella voglia di tenere una finestra aperta, di guardare gli altri e di essere guardati, dalle amministrazioni comunali come da un nuovo pubblico. La proposta era stata estesa anche a Sassuolo, ma abbiamo ricevuto un rifiuto. Vignola e soprattutto Carpi, avevano invece già una loro attività e hanno accettato subito la scommessa di mettere in gioco le loro idee sul contemporaneo. Un arricchimento ulteriore, quindi, che giunge dai vicini. Inoltre non mi stancherò mai di ribadire la necessità di rafforzare il rapporto di questo territorio con il resto dell’Europa, un luogo preciso, l’Emilia Romagna, in cui si sono trovate energie economiche disposte ad aprirsi. Questo spiega la presenza di tanti operatori stranieri. Il territorio ha acquisito una valenza precisa: avere un rapporto di scambio con l’Europa più forte sul piano organizzativo, artistico e progettuale. Modena, conosciuta più per i motori e l’aceto balsamico, vuole ora diventare luogo d’eccellenza del teatro come noi lo intendiamo.
Come giustamente lei dice, l’Emilia Romagna ha sempre posseduto una sua cultura teatrale, che da tempo trova espressione nei ben noti festival di Parma e di Santarcangelo. In cosa differisce e in che cosa trova necessità in questo panorama l’offerta del Vie?
Una buona domanda…Per cominciare le risponderei che siamo tutti figli di Santarcangelo e di Parma, che hanno entrambi una loro storia. Qui abbiamo sperimentato noi stessi e messo in discussione l’idea di teatro, a Santarcangelo con la ricerca e a Parma aprendo la strada a personalità internazionali come Nekrosius. E’ un modo di lavorare che punta sulla condivisione. La diversità di Modena sta nella sua dimensione territoriale, da coltivarsi nei luoghi del festival e nella stagione. Il progetto resta comunque unico. Non è una concorrenza fine a se stessa ma un’ulteriore ricchezza. Inoltre Vie si pone in una posizione originale, dopo i festival estivi e prima della stagione degli stabili. Ci tengo tuttavia a specificare che non ci siamo inventati un festival, non ci sono volontà politiche di fondo, eccetto quella di dare visibilità a un certo tipo di artisti. Vie è un festival che vuole stare dalla parte dell’artista. Il nostro ruolo, come il vostro, è quello di stare in mezzo, di mettere in comunicazione artista e spettatore... creare le condizioni migliori perché questo si realizzi nella maniera migliore, questo deve essere il senso del lavoro. Il teatro è prima di tutto una comunità che oggi sempre più si restringe, tra di noi deve vigere quella che mi piace chiamare la “legge dell’ecologia teatrale”: la sconfitta di uno è la sconfitta di tutti. Non ha senso perciò parlare di Vie come di un doppione.
Vie riserva un piccolo spazio anche alla dimensione di laboratorio. Anche la ricerca necessita di una formazione specifica?
I laboratori danno sicuramente lo spazio per andare avanti con la ricerca, ma soprattutto creano una bellissima messa in gioco del maestro e dell’allievo. Il laboratorio è finalizzato a strappare coi denti al maestro il più possibile per farlo proprio. E’ incontro e costruzione di un rapporto.
Certo, è vero: i laboratori potrebbero anche non esserci ma se ci sono non fa male…creano un ambiente. Quello che si è creato lo scorso anno a Vie è stato proprio questo: un ambiente vero, basato sulla generosità dell’artista e dello spettatore. In questo senso i laboratori sono cosa delicata, devi conoscere bene a chi li affidi, ma quando ciò accade si costruisce un connubio che supera lo spettacolo. Ci sono infatti creatori attenti come César Brie e Dario Manfredini che non insegnano solo teatro, insegnano a vivere, regole vere.