Buenos Aires, Argentina: l’Eldorado del teatro sembra avere trovato collocazione nel continente sudamericano. Solo nella zona centrale della città - si parla comunque di un’area che contiene circa tre milioni di abitanti - esistono oltre 160 sale che si collocano nell’area del teatro indipendente. Teatro e danza si trovano a tutte le ore del giorno e della notte, cominciando dalle quattro del pomeriggio della domenica per giungere sino alle tre di notte del sabato. Uno spettacolo “off” con un buon successo di pubblico e critica rimane in cartellone anche oltre due anni, cosa che non avviene solo per pochi casi isolati. A ben vedere, infine, molti festival e teatri europei (dal Kunsten Festival des Arts, il pionerie, a tanti teatri e istituzioni tedesche passando per Londra e per la Spagna) hanno dimostrato negli ultimi anni una spiccata apertura verso il teatro argentino, tanto che alcuni nomi noti come Ricardo Bartís, Daniel Veronese e Rafael Spregelburd, hanno cominciato a risuonare anche nelle orecchie degli spettatori del vecchio continente. Per tentare di avvicinarci alla proliferazione scenica di Buenos Aires, certo in maniera sfuggente e non approfondita, ci appoggeremo alla presenza a Vie di Federico León: con il documentario Estrellas, León e Marcos Martínez raccontano poeticamente, e con una buona dose di giocosa surrealtà, la “Villa 21”, una delle baraccopoli che circondano Buenos Aires.
Federico León si affaccia al panorama teatrale di Buenos Aires, alla precoce età di ventidue anni. Come molti esponenti del cosidetto “nuovo teatro argentino”, che si sviluppa a partire dal ritorno della democrazia nel 1983 e fiorisce negli anni ’90, León può essere definito un “regista-drammaturgo”: una particolare modalità di lavoro che non prevede due ruoli distinti, descrivendo una pratica teatrale a tutto tondo.
Pur essendo l’attività di León poco meno che decennale, la sua figura artistica viene da più parti riconosciuta come fra la più importanti del nuovo teatro argentino, abbracciando più campi della produzione teatrale e cinematografica: dagli inizi come attore passerà alla creazione scenico-drammaturgica di spettacoli propri, si cimenterà nella scrittura drammaturgica “a tavolino”, e scriverà e dirigerà un lungometraggio (Todos Juntos) che fotografa i momenti finali di un rapporto amoroso. Nel 2005 viene pubblicato Registros, libro che deposita in forma scritta l’attività teatrale e cinematografica sviluppata sino a quel momento, raccogliendo drammaturgie, interviste, dichiarazioni, recensioni.
Semplificando molto, potremmo individuare una linea sotterranea che percorre, come un fiume carsico, tutta la produzione di Federico León: un’indagine sui limiti di quella che definiamo “realtà”. Situazioni paradossali, estreme, bizzarre, difficilmente riconducibili a vicende realisticamente definibili emergono nel teatro e nel cinema di León. Spetta a chi guarda, al termine della visione, ricostruire una personale visione dei fatti, che sono sempre presentati in una forma ludicamente frammentaria.
Il primo lavoro risale al 1997: Cachetazo de Campo mette in scena un tormentato rapporto fra madre e figlia, trasferitesi da poco in campagna, alla prese con uno strambo figuro dal nome “La Campagna”, topos che si incarna in personaggio. In una situazione recitativa estrema, dove la vicinanza degli attori è sottolineata dal pianto ininterrotto delle due donne, l’opera descrive il tentativo di recupero di una relazione andata in frantumi, che rende madre e figlia torbidamente insoddisfatte. Un tentativo di ribellione, segnato dalla svestizione delle due e dall’abbandono di tutte le cose care, culmina in un agghiacciante finale: la figlia ricompare in scena apparentemente lobotomizzata, supinamente sposata con il rude e dozzinale personaggio “La Campagna”.
Nel 1999 viene Mil quinientos metros sobre el nivel de Jack, che in italiano potrebbe suonare come “Mille cinquecento metri sopra il livello di Jack”. Una donna passa la sua vita in una vasca colma d’acqua, in attesa del ritorno di suo marito di professione palombaro. Intanto, il figlio intrattiene una relazione con una vicina che irrompe nell’appartamento con un bambino. Anche a questa coppia manca una figura maschile: il marito della giovane donna ha abbandonato la famiglia lasciando soli moglie e figlio. I propositi per il futuro si risolvono in rotolamenti sul pavimento scivoloso, lanci di crackers fra i personaggi, sigarette fumate nella vana speranza di assistere all’immagine del marito palombaro in tv, l’unico contatto delle coppie di con il mondo esterno.
Nel 2003 debutta El adolescente, passato anche a Modena a “Le vie dei festival”: una sorta di affresco di formazione in cui tre giovani ragazzi devono difendersi dalle brame di due adulti sanguisuga. Battiti di mani, canzoni, corse, salti, botte ritmano l’azione, che per larga parte si basa sulla forza evocativa del racconto fisico. Lo spettacolo, per la prima volta, s’ispira a testi della letteratura universale, in particolare al corpus di romanzi di Dostoevskij. Intanto, nel 2002, León aveva girato il suo primo film: un documentario molto particolare, come è anche Estrellas, in cui si analizza la fine di un rapporto amoroso. Quello che rende singolare la pellicola sono gli interpreti, León e Jimena Anganuzzi, all’epoca realmente ex fidanzati.
Osvaldo Pellettieri, storico argentino, a proposito delle proposte sceniche degli anni ’90, parla di “Teatro della disintegrazione”: un filone di proposte che sembra non avere in mente un progetto di società differente, né credere in alcuna misura nella possibilità di recuperare la tradizione. Il pessimismo è il sentimento che pervade molte di queste opere, ovviamente in diretta corrispondenza con le conseguenze del modello menemista in auge negli anni ’90: incomunicabilità famigliare, violenza in tutti gli strati del vivere sociale, consumismo sfrenato, mancanza di prospettive per il futuro, sono solo alcuni dei temi toccati dalla “disintegrazione”.
Pur in questa considerazione “aperta” del testo, va detto che il teatro della disintegrazione crede fortemente nello statuto letterario della scrittura per il teatro, che viene in parecchi casi pubblicata e fruita in forma di libro. Tale “corrente” avrebbe contribuito in maniera decisiva all’ampliamento del concetto di drammaturgia in Argentina, e avrebbe addirittura imposto uno “stile” dove proliferano ambiguità, zone di mistero, passaggi criptici lasciati alla libera interpretazione del lettore.
Per evitare di fornire classificazioni troppo restrittive, ci viene in aiuto il concetto introdotto da Jorge Dubatti di “Canone della molteplicità”: la coesistenza pacifica di tantissime “micropetiche”, che si affastellano in un panorama multicomposto, come se per fare fronte al livellamento culturale recato in dote dalla globalizzazione il teatro sul Rio de la Plata sia esploso, spargendo le sue spore in maniera dissimile ma feconda. La molteplicità ha diverse connotazioni: di ruolo, dove tutti fanno tutto, come León stesso che inizia come attore e diventa regista delle proprie opere o drammaturgo per le proprie messe in scena; del concetto di drammaturgia, che da produzione letteraria per il teatro diventa creazione scenica di attori, registi, gruppi, raggruppamenti di quartiere; di stili e registri scenici, comunque accomunati dal largo uso di parodia, citazioni, pastiche ironici ma mai avulsi dalla contingenza sociale e politica del tempo. In tutto questo, appunto, succede che un giovane regista e drammaturgo compia alcune escursioni verso il linguaggio del cinema, traslando e trasfigurando la propria ricerca poetica in mezzi che trascendono la forma teatrale.
In ultima analisi, l’opera di Federico León così come molto teatro indipendente della città, non si propongono di descrivere in maniere realistica un dato ambiente sociale, ma disegnano costruzioni altre, che corrono su un binario parallelo rispetto alla contingenza di partenza. Il teatro argentino, al contrario di quanto ci descrive il luogo comune sull’arte in luoghi “di crisi”, rivendica il diritto alla finzione, rifuggendo l’istantanea, il paesaggismo, il piano-sequenza sulla cronaca della società. Questo discorso ci serve per trarre una parzialissima ma crediamo fondata conclusione sul teatro di Federico León e di Buenos Aires, che assumono il valore di vere e proprie “gnoseologie alternative” rispetto ai tradizionali mezzi deputati alla conoscenza e all’informazione. Sappiamo tutti che la società ultra o post comunicazionale odierna ha ridotto a meri simulacri i messaggi che quotidianamente producono mass-media e politica. Tale situazione, forse, risulta ancora più marcata in Argentina, un paese che nel 2001 ha visto alternarsi 3 presidenti in 11 giorni, dopo il crack economico che l’ha ridotto sul lastrico. Il teatro, o il cinema, proprio in virtù di venire prodotti “dal basso”, da poche persone che si riuniscono e sviluppano un progetto comune, possono allora farsi strumenti di conoscenza, una conoscenza ovviamente altra, parallela al reale, che imposta e segue leggi proprie. Ma che al reale in un qualche modo ritorna, aiutandoci a illuminarlo.