MAPPE > Il Teatro di danza di Joseph Nadj
Definire le creazioni di Joseph Nadj, attribuendo loro etichette o ascendenze precostituite – come spesso si è tentati di fare per pigrizia o per facilitarne l’approccio – è un’impresa incerta quanto di scarsa utilità. I suoi lavori trasmettono segni e suggestioni molteplici e intricati, invitano a rimandi estetici che sembrano illuminarci ma solo per qualche attimo, evocano persone, immagini, luoghi, sogni e paure che riconosciamo più con l’emozione che con la memoria. Costruiscono un mondo concluso di frammenti di realtà e di fantasia intrecciati a formare una trama compatta e inestricabile, come la maglia dello straordinario nido di un uccello tessitore: ciò che vediamo sono i mille disegni concreti e illusori della superficie, evocazioni materiali ma simboliche del cuore segreto che pulsa all’interno.
Del resto, l’immaginario di Nadj rappresenta un fantastico esempio di meticciato culturale e artistico.
Nato a Kanjiza quarantadue anni fa, nella regione a maggioranza ungherese della Vojvodina, a quel tempo parte del territorio iugoslavo e oggi appartenente alla Serbia, si è nutrito fin dall’infanzia delle due culture, magiara e slava, entrambe ricche di storia e di tradizioni. Il territorio, prevalentemente agricolo, abbonda da sempre di fiabe e leggende, ma anche di danze e feste popolari di grande varietà, conservate con cura dal regime comunista, a cui il ragazzo accomunava i racconti dei nonni sul lavoro duro e la vita compressa dei contadini e degli artigiani.
Affascinato dalle immagini dei pittori naif e dalle riproduzioni di quadri celebri trovate qua e là, Nadj si dedica precocemente alla pittura, frequenta la scuola di Belle Arti e giunge solo più tardi al teatro attraverso lo studio delle arti marziali, del mimo e della danza comunitaria.
La sua prima creazione, un solo, risale al 1979, quando frequenta a Budapest l’Università e insieme la scuola del mimo Kecskés. Sono, quelli, gli anni delle potenti suggestioni diffuse dal vicino teatro polacco, capeggiato dalle figure carismatiche di Jerzy Grotowski e Taddeus Kantor, influssi che non mancano di agire profondamente sul giovane attore, miscelandosi alla sua sensibilità pittorica e plastica.
L’anno successivo, su consiglio del suo maestro, in cerca di un ambiente più favorevole al suo apprendistato teatrale e alla sua ricerca creativa si trasferisce a Parigi, proprio nel momento di maggior impulso e sviluppo della nouvelle danse francese. E’ qui che scopre la danza contemporanea e ne fa le prime esperienze accanto a personalità tra le più interessanti, come Mark Tompinks, Catherine Diverres e François Verret, e nell’ambito del Théâtre de la Bastille, allora luogo di punta della sperimentazione.
Nel 1987, dopo anni di lavoro e studio tra Francia e Ungheria, presenta il suo primo spettacolo completo, Canard pékinois, che subito lo impone all’attenzione del pubblico e della critica europei per la peculiarità, che diverrà inconfondibile, del suo segno espressivo. Ispirato a cupi ricordi di guerra e di vita senza speranze del suo paese nei primi decenni del secolo, lo spettacolo è fatto di immagini forti e di una gestualità intensa e sorprendente, mai banalmente rappresentativa, simbolica e allusiva, in cui la danza non appare chiaramente ma il movimento concertato domina. L’impronta contemporanea mitteleuropea è immediatamente riconoscibile, ma la singolarità coreografico/registica dell’autore si impone e lascia un segno inquietante.
Archiviato da subito come teatro-danza, in mancanza di altre possibili definizioni, il lavoro di Nadj si profila fin dall’inizio come un’ipotesi di teatro globale, fusione di immagine, composizione plastica e dinamismo.
La visionarietà del ricordo con la suggestione della morte nei suoi aspetti macabri, dei lati oscuri e violenti dell’umanità, dell’oppressione e dell’irrazionalità della vita si ritrovano costantemente nei lavori successivi, ma l’imprevedibile felicità delle invenzioni sceniche e dinamiche, la vena assurda e visionaria, gli squarci di grottesco umorismo, conferiscono alle creazioni di Nadj risvolti sempre nuovi e sorprendenti. Abituale è anche l’ambientazione in luoghi chiusi, a volte soffocanti e decisamente ostili, con l’unica presenza, spesso ingombrante, di tavoli, sedie e altri oggetti poveri che alludono al quotidiano; abituali sono gli abiti, i cappelli, i lunghi cappotti di colori scuri; abituale è la predominanza di elementi maschili sulla scena, sia per quanto riguarda gli interpreti che la qualità dell’ energia.
Nel 1988 inizia la collaborazione di Nadj con il Carré Saint Vincent di Orléans e la Scène Nationale, di cui diverrà due anni dopo coreografo associato.
Nasce, nell’88, Les sept peaux du rhinocéros, ispirato alle vicende sinistre dei racconti e dei ricordi della sua infanzia. A dominare, qui, è l’immagine spettrale, multiforme e surreale della morte, insieme con il timore ancestrale che essa diffonde negli uomini.
Il potere politico e le sue trame di subdola violenza nascoste sotto un manto di magnificenza sono al centro di La mort de l’empereur, del 1989, mentre nel 1990, Comédia Tempio, che si vale della ben avviata collaborazione con lo scenografo Goury in un ambiente scenico apparentemente banale ma pieno di assurde sorprese e di tranelli nascosti in ogni dove, scaraventa gli acrobatici protagonisti in un mondo ingannevole da incubi infantili. Da ricordare in questi spettacoli, per la consonanza degli intenti creativi, è anche la efficace e duratura collaborazione con il musicista compatriota Stevan Kovac Tickmayer.
Les échelles d’Orphée, del 1992, prende vita dalle vicende di una singolare compagnia di pompieri-attori dilettanti esistita a Kanjiza tra fine Ottocento e inizio Novecento, che metteva in scena con successo commedie brillanti. Nadj vi presenta con divertimento acre e un po’ crudele una galleria di stralunate figure, evocate ancora una volta dalle memorie della sua terra d’origine.
Con il Woyzeck, da Büchner, ha invece inizio, nel 1994, una serie di lavori che prendono spunto da opere letterarie. I temi della tragedia ineluttabile stemperata in un grottesco allucinato e quelli degli istinti violenti e insopprimibili dell’uomo vi sono presenti, così come in L’anatomie d’un fauve, dello stesso anno, dedicata allo scittore ungherese Oskar Vojnich.
Una parentesi giocosa e di sorprendente perfezione compositiva è Le cri du caméléon, realizzata per L’anomalie-Cirque Compagnie nel 1995 – anno in cui Nadj assume la direzione del Centre Chorégraphique National d’Orléans. Insieme a Goury e Tickmayer, Nadj crea una macchina perfetta per intreccio di azioni, tempismo e invenzioni scenografiche, ispirandosi liberamente al romanzo Supermaschi di Alfred Jarry e mettendo a frutto le speciali abilità degli interpreti acrobati che realizzano miracoli di dinamicità e di equilibrismo.
Sono Borges e Dante, ad ispirare, nel 1996, Le commentaires d’Habacuc, dove si ritorna all’oppressione di un ambiente soffocante, ingombro di oggetti instabili, tavoli, sedie e pareti pronti a trasformarsi di continuo in altro da sé sotto le mani degli uomini. Le persone che lo abitano si agitano meccanicamente senza sosta nel vano tentativo – simile alla fatica di Sisifo - di dare ordine definitivo ad un mondo incongruente. Negli ultimi anni Le vent dans le sac (1997) e Les Veilleurs (1999), rispettivamente ispirati all’opera di Beckett e a quella di Kafka, autori certo congeniali all’universo di Nadj, ne hanno confermato la vena drammatica.
Lo stile teatrale di Nadj è oggi nettamente definito e internazionalmente apprezzato; le sue atmosfere inconfondibili, illusorie e perturbanti, le immagini mutanti ed evocative, l’uso consumato del movimento corporeo, sempre in bilico tra il quotidiano, l’acrobatico, il mimo e la danza, la sapienza dell’intreccio spaziale e tematico, che sfugge costantemente alla descrizione e alla narrazione eppure suggerisce mille possibili interpretazioni, lo rendono unico nel panorama del teatro contemporaneo.
Con Le temps du repli, creato nel 1999, Nadj affronta per la prima volta la composizione di un duo, quel pas de deux momento della verità per i coreografi storici e ora sfida seducente per un contemporaneo anomalo come lui. Insieme a Cécile Thiéblemont, già danzatrice della sua compagnia e di quelle di Odile Duboc e di Francesca Lattuada, ha lavorato lunghi mesi alla ricerca di una sintonia creativa per esplorare il rapporto di coppia nella danza e attraverso la danza. Ad accompagnarli e sostenerli nella prova, un musicista dalla ricca esperienza compositiva, il percussionista russo Vladimir Tarasov, impegnato a creare uno sfondo sonoro che mira a configurarsi come un vero universo musicale.
Senza alcun riferimento letterario, i due hanno cercato di riscoprire, evitando di cadere nell’aneddoto, quei gesti assoluti propri dei diversi momenti della relazione originaria uomo-donna, gesti fluttuanti tra la lotta e l’armonia, “una serie di segni, un linguaggio corporale e di movimenti, un’altra parola che il linguaggio parlava”, dice Nadj. “Qualcosa si è spezzato nella coppia primordiale della Genesi. In questo spettacolo, si cerca di riattaccarne i frammenti”.
E in verità, questo “duo a tre”, come viene scherzosamente definito, non si concede sosta nella ricerca e nella scoperta di modi di relazione. In uno spazio vuoto, concentrato solo intorno alla consueta presenza di tavoli e sedie, un uomo e una donna, vestiti con soprabiti e cappelli senza tempo, si trovano, si osservano, si sfiorano e danno inizio a un gioco intimo e pudico di reciproca conoscenza, di esibizioni seduttive, di episodi di vita in comune, dove gli incontri e gli scontri si succedono con invenzioni continue. Pochi oggetti banali, alcuni bastoni, un cavalletto, due maschere, due piccoli, inquietanti fantocci-simulacri della coppia, li aiutano a comporre scene e immagini semplici, sorprendenti, talvolta folgoranti. Ma a dominare è sempre il movimento, il linguaggio di segni e segnali reciproci che i corpi inventano via via senza soluzione di continuità: improbabili “prese” e azioni disarticolate o sapientemente misurate, balbettio o poesia di un pensiero del corpo che trova un contrappunto efficace nell’emissione di suoni rudimentali, nella parola e nel canto. Presente, a lato, il musicista pare eseguire una propria danza complementare: accompagna e stimola i danzatori, sottolinea e sostiene l’azione, infonde energia sonora allo spazio impreciso, modellato solo dalla parola danzata che lo solca e lo definisce.
Una prova del fuoco ancora una volta pienamente superata da un Nadj inedito, che riesce con finezza a decantare il suo linguaggio teatrale avvolgente e sovrabbondante di segni in un discorso sottile, stupito, colorito di ironia e di tenerezza.
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