ceffi baffuti di sazie trote
montano guardia poliziesca
sul fondale di calce.
E a Erivan’ e a Ečmjadzin
l’immensa montagna ha bevuta tutta l’aria.
Ah, poterla sedurre con un’ocarina
o addomesticarla con un flauto,
perché si sciolga la neve in bocca.
Nevi, nevi, nevi sulla carta di riso,
la montagna viene verso le labbra.
Ho freddo. Sono felice….
Parola in transito, fascio di significati che si irradia in varie direzioni. Questa è la poesia per Osip Mandel’stam, un viaggio in perpetuo movimento dove l’occhio si delizia e si tortura.
Sevan, Ašot Ovane’jan, L’Oltremoscova, Suchum, I francesi, Intorno ai naturalisti, Aštarak e Alagez sono le otto tappe che in Viaggio in Armenia accompagnano la rinascita di una lirica in cammino. Febbrile e impaziente, il verso prosegue la sua lotta di ribellione ai condizionamenti del regime staliniano per farsi sincero autore della propria pienezza.
Il 1930 fu per il poeta l’anno di una partenza quasi costretta, che lo porterà con l’amata moglie Nadedza a lasciare la Russia, suo paese natale, per dirigersi a sud e visitare la Georgia e l’Armenia, la quale finirà per rivelarsi luogo privilegiato di un’esperienza meditativa e ispiratrice.
Tra le ruvide pendici del Caucaso e le quiete rive del Mar Nero, l’Armenia è una terra che ha vissuto e continua a vivere di un carattere forte. Una cultura colorata e imbevuta di religiosità cristiana, fatta di antiche tradizioni e gente autentica, da cui il poeta non potrà che restare profondamente impressionato: «La pienezza vitale degli Armeni, la loro rude affabilità, le loro nobili ossa lavoratrici, l’inesprimibile disgusto per qualsiasi metafisica e la splendida familiarità con il mondo delle cose reali – tutto questo mi diceva: sei ancora lucido, non temere il tuo tempo, non fare il furbo». Per ben due volte tuttavia, la violenza ha riversato su questo piccolo paese tutta la sua follia, rendendolo protagonista di uno dei genocidi più sanguinosi della storia.
Ma che cos’è esattamente un genocidio? «Il termine deriva dal greco genos, stirpe. E’ lo sterminio deliberato di tutto un popolo, a prescindere dall’età, dal sesso, dalle opinioni politiche e dalle credenze religiose dei suoi membri». Questa perlomeno la lezione corrente dei libri di storia.
Ma c’ è di più. C’è innanzitutto lo sterminio di azioni, desideri e idee, di una casa, dell’anima di una comunità che qui ha costruito un’identità in cui sente il diritto e il dovere di riconoscersi.
C’è paura e desolazione per la fine di Hayastan, ‘la terra di Haik’, discendente di Noé. Sono queste le «ansie terribili di un popolo inerme e insicuro, a cui ogni giorno può volgersi il male, dove i vecchi non raccontano di maghi e di orchi, ma ricordano gli eccidi di vent’anni o dieci prima e sgranano come un rosario l’elenco dei parenti massacrati o scomparsi».
Il primo massacro risale al 1830, dove nell’impero ottomano si contavano circa 2,5 milioni di Armeni, per la maggior parte cristiani orientali o cattolici. Gli Armeni erano sostenuti dalla Russia nella loro lotta per l’indipendenza, poiché la Russia aspirava a indebolire l’Impero per annetterne territori, puntando soprattutto a Costantinopoli. Per reprimere il movimento autonomista, il governo ottomano incoraggiò tra i Curdi sentimenti di odio anti-armeno. Nel 1984, esasperati dall’oppressione curda e dall’aumento delle tasse imposto dal governo, gli Armeni scatenarono una rivolta a cui l’esercito ottomano rispose assassinando migliaia di famiglie e bruciandone i villaggi. Due anni dopo alcuni rivoluzionari armeni occuparono la banca ottomana di Istambul. La reazione fu un pogrom anti-armeno da parte dei turchi islamici in cui persero la vita 50.000 persone. Il grado di coinvolgimento del governo ottomano è ancora oggetto di discussione.
Il secondo genocidio (1915) fu tuttavia quello che impresse nella nostra memoria storica le ferite più atroci. Nel periodo precedente la Grande Guerra, i Giovani Turchi erano succeduti all’Impero. Questi, temevano che i Russi si alleassero con gli Armeni, poichè nel loro esercito erano stati reclutati molti militari che in precedenza appartenevano a quello ottomano. Nel frattempo la Francia finanziava e incitava gli Armeni alla rivolta contro il nascente potere repubblicano. A una così grave minaccia all’ancora debole stato i Giovani Turchi reagirono con l’esecuzione di 300 nazionalisti armeni e l’ordine di deportazione del popolo dall’Anatolia, dove risiedevano da millenni, verso i deserti della Siria e della Mesopotamia. Nelle marce di morte, centinaia di migliaia di persone morirono di fame, malattia e sfinimento. Altre centinaia di migliaia furono massacrate dalla milizia curda e dall’esercito turco per un presunto totale massimo di 1.500.000 morti. Il mancato riconoscimento da parte della comunità internazionale porta ancora oggi il governo turco a rifiutarsi di riconoscere il genocidio che suppone non essere fondato in quanto inserito all’interno di una generale tensione nel periodo del crollo dell’Impero. La magistratura turca punisce con l’arresto e la reclusione fino a tre anni il nominare in pubblico l’esistenza del massacro armeno perché è considerato un gesto antipatriottico.
Come una favola malinconica, tutto questo orrore si mischia alla poesia di Mandel’stam che Castiglioni, Nanni e Guerrieri hanno portato nel loro Viaggio in Armenia tra le spesse mura della Rocca di Vignola. Dopo aver ripercorso le tappe del ricordo ed esserci accostati alle teche del racconto, Castiglioni-Mandel’stam ci regala un libricino sottile, su cui campeggiano 24 fotografie, già proiettate durante lo spettacolo su un piccolo televisore digitale. Sono immagini allusive, di paesaggi, di oggetti, di guerra e di persone:
“Non troverete qui una galleria di ritratti: si tratta invece di trabocchetti, armi, grida, gesti, atteggiamenti, astuzie, intrighi, di cui le parole sono state lo strumento. Delle vite reali sono state ‘messe in gioco’ in queste frasi; non intendo dire che vi sono state figurate o rappresentate, ma che di fatto, la loro libertà, la loro sventura, spesso anche la morte e, in ogni caso, il loro destino vi sono stati, almeno in parte decisi. Questi discorsi hanno veramente incrociato delle vite; queste esistenze sono state effettivamente rischiate e perdute in queste parole”.
Chiudono così i pensieri di Michel Focault le pagine dell’opuscolo e il senso dell’opera stessa, museo che ci insegna a ricordare.