MAPPE > Due amici, Spiro Scimone, Francesco Sframeli
Cari Spiro e Francesco e caro pubblico, desidero innanzitutto scusarmi per non poter essere presente. E non perché ritenga la mia assenza una privazione rilevante o particolarmente incidente sul senso di quanto andrete a vedere, ma perché mi sarebbe piaciuto cominciare parlando proprio di corpi e di presenze.
Avrei potuto trovare altri spunti alternativi per animare un’introduzione a Due amici: potevo per esempio arrischiarmi in una riflessione d’attualità sulla coscienza drammaturgica apparentemente ‘riemersa’ nel teatro degli ultimi anni e che trova in Spiro Scimone un contributo di marcata rilevanza, facilmente catalogabile tra i nostri ‘casi’ di recente scoperta. O parallelamente potevo inciampare nella trappola delle catalagazioni generazionali, o generaliste. E Nunzio, testo d’esordio del ’94, cui si ispira il film del 2002, si prestava comodamente a entrambe le generalità. Come quella dei due attori di appartenere alla celeberrima ‘ondata siciliana’, in ottima compagnia dei nomi pluripremiati di Davide Enia, Emma Dante e Tino Caspanello, salendo a ritroso fino al maestro isolano Scaldati. Avrei potuto infine soffermarmi sull’immancabile rimando a quel teatro dell’assurdo di cui lo stesso film, nei meccanismi macchiettistici iterati è una sottile citazione, come di certi escamotage pinteriani ben riusciti. Ma sarei stata miope sulla complessità delle pratiche drammaturgiche diversissime che affondano in modo diversissimo nel confronto tra le lingue e l’afasia contemporanea; e contemporaneamente sarei stata strabica nell’ignorare come il ricorso al dialetto sia un elemento che qualifica gli esordi della cosiddetta rinascita drammaturgica a dire il vero fin dagli anni Ottanta, dalla schiera dei cosiddetti “post-eduardiani”, Ruccello, Moscato, Santanelli e più a nord dalla ricerca romagnola di una ‘lingua teatrale nuova’ che approderà a sperimentazioni varie.
Nessun fascio per erbe singolari, quindi.
Cercando poi di prescindere dalla dicotomia cui siamo abituati, tra i fautori di un fronte del corpo e i sostenitori di una drammaturgia scritta per essere rappresentata, mi pare che pure questo dilemma tenti qui di risolversi nel corpo di un drammaturgo attore che non mostra particolari titubanze nei confronti di una sintesi pacifica dei due universi.
Ovviamente si poteva anche optare per un’illustrazione della trama e dei personaggi, ma la loro semplicità avrebbe rischiato una complicazione assolutamente soggettiva, quanto la loro complessità ne sarebbe stata banalmente semplificata. E ritengo il regista l’unico possibile ad assumersi questa responsabilità.
E allora cominciare dal corpo, che in fondo è lingua in movimento. E senza sorpresa che da qui si approdi al cinema, espediente magico di questo spostamento tra parola e corporeità la cui delicatezza mi pare proprio consistere nell’impercettibilità, nel quasi immobilismo su cui si costruisce l’azione. Tutte le volte che ho avuto occasione di partecipare agli interventi di Scimone e Sframeli, di leggere le loro interviste, di assistere ai loro laboratori, sempre ho potuto constatare l’insistenza, al limite della reticenza, con cui il motto d’ordine ‘dal corpo alla parola’ tentava di evadere la sua complicatissima banalità per divenire realtà profonda della creazione scenica.
Quasi per ironia oggi mi trovo a scrivere da quella stessa Torino in cui è ambientato il film e che da immigrata diversa dai due amici Nunzio e Pino, vedo ovviamente in modo nuovo e differente. Tuttavia i luoghi (pochi) come il tempo dell’ambientazione, per quanto evincibili da qualche scarso rimando qua e là, si assolutizzano nella trama, che potrebbe essere comodamente in ogni dove e quando. E la percezione felice che si ha alla fine della visione è che il doppio passaggio dal testo al palco alla pellicola non abbia cancellato nel potenziamento scenico e cinematografico le tracce di quella definizione pulita.
L’impressione è piuttosto che la natura realistica dell’invenzione teatrale, la sua funzione imitativa, si sia sposata con quella narrativa; l’avvicendamento fabulistico alla maniera napoletana si sia fuso con l’umanità descritta per primi piani alla Beckett (o a Pinter ancor più, che giustifica forse l’innamoramento di un regista come Cecchi per la pièce di Scimone). Così, se non fosse innegabile la fascinazione e il coinvolgimento emotivo della lingua – un messinese strettissimo con effetti a tratti sketchistici – si potrebbe parlare invero di atti senza parole, montati – ed ecco il cinema – in sequenze rituali che risvoltano nella forma un contenuto fatto di isolamento, iterazione, condizionamento produttivo, automatismo e ancora disagio fisico.
L’altra parola d’ordine è evidentemente il conflitto che ne deriva, tanto che il resto del mondo del film e quello dello spettatore sembrano contemporaneamente attratti nella compassione per queste figure umanissime calate nella concretezza del cibo, la malattia, l’amore e scartati dalla contrarietà a riconoscersi in quella triste mediocrità antieroica. La neutralità insoluta che permeava la scena di Nunzio, sclerotizza la casa, il bar e la fabbrica dei Due amici. I ritornelli dialettali della pièce si alternano qui all’altra musica della radio e la percezione dell’uniformità stagnante tra le pagine del testo di un dialogo quotidiano sempreuguale si conferma in un montaggio cinematografico invariato nei giorni. Eppure nel film quei corpi si staccano verso un altrove, che la scena concede solo nell’immaginazione, oltre il calo del sipario.
In questo senso averne assaporato le tre versioni, se mi si passa la semplificazione, non fa altro che confermare la completezza e autonomia della prima (quella testuale), che già ricalcava sulla pagina il movimento di una lingua e un corpo in vita. Anzi due, visto che il sodalizio di Scimone e Sframeli è la chiave stessa con cui si apre un pertugio tra identificazione e invenzione. Si aggiungono luoghi e persone nel film, si illustra quello che nella scena è solo presentito, ma non si perde niente e, vorrei dire, nulla si guadagna. (A parte il figuro del padrone di casa su cui mi piacerebbe sempre sapere molto di più…). E mi sembra un evidente pregio che il potenziamento potenziale (scusate il gioco di parole) dei mezzi, non sporchi la loro già potente fragilità.
Se fossi lì allora questo chiederei: come superare il rischio che un’apertura comunicativa e documentarista come quella del corpo attraverso il mezzo filmico riempia l’inafferabilità spaziale e temporale che è l’identità del testo? O, in altre parole, che coraggio e coscienza sono necessari per rispettare nell’esposizione cinematografica quella chiusura dialettica tra corpo e parola da cui nasce il testo?
E ancora una precisazione: prima ho detto che mi trovo a Torino come ‘immigrata’. In realtà il massimo che pare essermi concesso in questo momento storico è l’appellativo poco esclusivo e molto escludente di ‘fuori sede’… Rispetto all’immigrazione vera, invece - a quella dei due amici - come vi pare che si possa risolvere il dilemma attualissimo con l’integrazione se le alternative che gli stessi scelgono o da cui si fanno scegliere sono anche nel film quelle della vita reale, cioè la criminalità e la morte bianca? Sempre che sia vero poi che è l’integrazione che si cerca, o non piuttosto, come i protagonisti, di nuotare al di sotto della corrente e a occhi aperti, “puri ‘si bruciano…”.
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