Conversazione con Fabrizio Orlandi e Luciano Trebbi dell'Ufficio Tecnico del festival Vie
A cura di Isabella Albertini
Raccontateci il festival “dietro le quinte”, quello che agli spettatori non è dato vedere.
Si fuma, si fuma molto, anzi, moltissimo. Il nervosismo dilaga (ridono). La parte tecnico-organizzativa, quella eseguita da coloro che lavorano dietro il palcoscenico, lontani dagli sguardi del pubblico, è importantissima perché ricorda una caratteristica fondamentale del teatro: il teatro si fa, si costruisce, non soltanto si vede.
Ciò che gli spettatori non vedono è il sudore, la perizia, il lavoro pratico del tecnico con i fari, il mixer, i cavi: a loro è dato di ammirare il risultato, l’effetto complessivo.
Chi assiste a una rappresentazione teatrale forse non sa che il nostro compito non si esaurisce con il montaggio ma che si compone di relazioni, di rapporti con le Compagnie, in una dimensione in cui lo scambio è reciproco e proficuo. I tecnici accompagnano gli artisti a fare la spesa, procurano loro il materiale di cui necessitano per lo spettacolo, cercano di risolvere al meglio ogni imprevisto. In tal modo cresce in noi la consapevolezza di essere parte integrante dello spettacolo stesso, di contribuire a un quid che diviene anche nostro.
Come cambia il vostro lavoro se inserito nella dimensione “accelerata” di un festival?
Il festival coinvolge una grandissimo numero di persone: tecnici, artisti ed organizzatori. Si amplifica notevolmente il meccanismo relazionale, aumentando così sia la difficoltà sia la ricchezza del nostro lavoro. La molteplicità è sempre, per essenza, interessante, nonostante essa, talvolta, comporti disagi e preoccupazioni. Occorre saper coniugare le esigenze della Compagnia alle risorse, umane ed economiche, di cui si dispone, trovare un punto di incontro e fare in modo che si operi nelle migliori condizioni possibili, nella duplice tutela degli artisti e di coloro che permettono loro di allestire lo spettacolo. Se uno spettacolo è ben riuscito, è perché, “a monte” della sua apparente semplicità e naturalezza, vi sono stati uno studio complesso e una attenta capacità di ascolto.
Il ritmo “accelerato” di un festival incalza a trovare soluzioni di emergenza nelle situazioni più varie, e ciò può avvenire soltanto se si è instaurato un clima di collaborazione, di estrema duttilità e malleabilità. Nulla è più mutevole di una scheda tecnica, sempre soggetta a modifiche e a correzioni: si deve ragionare ora per ora, non vi è spazio per grandi programmazioni. In questo contesto non devono, ma soprattutto non possono esistere le classiche dinamiche di potere, poiché andrebbero a intaccare la capacità di risoluzione dei problemi. Alla fine della giornata la stanchezza ci sfinisce, ma quella luce di gratitudine nello sguardo degli attori e la bellezza del risultato finale è una gratificazione incommensurabile, la spinta per iniziare un nuovo giorno di duro lavoro senza sapere a che ora terminerà.
Cos’è cambiato nel vostro modo di lavorare, dai tempi del San Gimignano ad oggi, fino a questo festival?
La nostra storia affonda le proprie radici in un momento storico dove tutti, in teatro, facevano tutto. Oggi, purtroppo, la situazione è cambiata. La cosiddetta “ruolizzazione”, ovvero la suddivisione dei compiti che dividono la parte tecnica da quella artistica, è propria dell’innovazione del teatro di gruppo, affermatasi verso la fine degli anni settanta. I meccanismi del teatro tradizionale si sono progressivamente impadroniti anche del teatro di ricerca e dei festival, creando una dicotomia, fasulla, fra i tecnici e gli artisti. Per noi, il teatro è invece un insieme, deve essere un insieme, perché, se così non fosse, non costituirebbe altro che una parzialità irrisolta. Per questo motivo sosteniamo che non esistano un punto di vista tecnico e un punto di vista artistico su uno spettacolo, ma che ve ne sia soltanto uno, che li racchiude entrambi. Quello che ci interessa, in altri termini, è la dimensione complessiva del teatro, inteso come un “unicum”, senza parcellizzazioni, senza tasselli scomposti.
Ciò che a voi manca, probabilmente, è un contatto ravvicinato con il pubblico.
È indubbiamente vero. L’assenza di un rapporto diretto con gli spettatori è la carenza più grande del nostro lavoro. Si tratta, per definirla con un ossimoro, di un’evoluzione involutiva, determinata anch’essa dalla “ruolizzazione”. Quella che i tecnici hanno con il pubblico è una relazione sfuggente, di piccole visioni, che prendono vita negli atri del teatro, quando le persone non si sono ancora completamente disperse. Tempo fa era diverso. Vi era un periodo in cui il processo veniva valorizzato anche al di là dell’opera finale. Nel processo includiamo la parte più manuale, ovvero l’arte del fare, con le mani. Le mani sono una parte pensante e pulsante del teatro, come ci insegnano anche Burrows e Fargion.
Sarebbe bello ritrovare una possibilità per mostrare il teatro nella sua totalità di corpo. Brecht l’ha fatto, così come Pirandello e, a suo modo, Grotowski. Ciò non significa mettere in scena i tecnici, ma semplicemente rendere evidente quelli che sono le fondamenta e i pilastri dell’edificio. Brecht diceva che “tutti ricordano i nomi dei faraoni per cui le piramidi sono state costruite, ma nessuno di ricorda il nome degli schiavi che sono morti per costruirle”. A noi piace pensare che, quando uno spettatore assiste a quella piramide che è uno spettacolo teatrale, si ricordi anche del lavoro che è stato compiuto per permettere la sua realizzazione.