Ci piacerebbe, prima di tutto, avere un racconto diretto del vostro spettacolo. Ci parli un po’ de La tercera obra?
L’opera è costituita da una serie di quadri, piuttosto diversi l’uno dall’altro, unificati dal tema generale dell’“educazione al timore”: il modo in cui la società ci obbliga subdolamente a “comportarci bene”. Partendo da Terrore e miseria nel terzo Reich di Brecht, giungiamo a parlare del Cile, riferendoci anche alla dittatura militare. Sono presenti circa cinque scene dal testo di Brecht, che vengono alternate ad altri testi scritti dall’altro regista della compagnia, Alexis Moreno. Si tratta di una sorta di collage di scene, in cui saltiamo dalla Germania al Cile, in cui si trovano canzoni popolari cantate da giapponesi, in cui il registro passa dal realismo alla parodia, utilizzando anche l’hip-hop. Abbiamo anche una “Miss Cile”, una belloccia senza troppo cervello che arriverà a riscattare la memoria del popolo. In generale, lo spettacolo è un mix di cultura alta con spazzatura. Un’altra linea di fondo è rappresentata dal gioco tra realtà e finzione: l’inizio viene presentato come se stessimo ancora provando, ci sono i video delle prove, e solo con l’avanzare della narrazione s’impone la teatralità. Si tratta di una riflessione che vorremmo proporre anche a chi ci guarda: siamo convinti che il teatro “succeda”, diventando credibile quando appaiono momenti di verità... vorremmo evitare di piegarci al mero rispetto delle convenzioni pre-esistenti, e anche per questo motivo interpretiamo Brecht senza nessun tipo di costume d’epoca.
Come e quando nasce il Teatro La María?
Il teatro La María è formato di in pianta stabile da quattro persone, che sono un po’ l’anima creatrice della compagnia, mentre gli altri attori vengono convocati di volta in volta a seconda dei progetti. Proveniamo tutti dalla scuola di teatro dell’Università del Cile, di Santiago, e ci siamo fondati in compagnia nel 2000. Fino a questo momento abbiamo prodotto undici lavori fra spettacoli e performance. Posso dire che la compagnia ha praticato molteplici generi: nei primi tempi abbiamo affrontato il melodramma, facendo largo uso dell’humour nero, e mettendo in scena testi orginali di Alexis. In seguito abbiamo fatto i conti con alcuni classici, come Shakespeare, Cechov, Strindberg. Negli ultimi tempi ci stiamo interrogando su come ottenere che il teatro diventi un qualcosa di realmente efficace. Ci chiediamo spesso: per quale motivo le conversazioni al bar sono più attraenti di uno spettacolo teatrale? Per questo, stiamo tentando di capire come instaurare una relazione diretta con lo spettatore. La scelta di proporre tanti brevi quadri in cui mescoliamo differenti stili è una possibile risposta.
Lavorate in maniera collettiva o vi date una suddivisione specifica in ruoli?
Diciamo che ci sono alcuni punti di riferimento che ritornano: Alexis Moreno di solito scrive i testi, mentre la regia viene firmata insieme da me e lui. Nonostante questo, potrei dire che tutti facciamo tutto: pur esistendo una figura di riferimento, tutti gli attori esprimo le proprie opinioni, forniscono consigli estetici, manifestano dissenso. Non si tratta di un metodo democratico, perchè non avvengono “votazioni”... l’idea migliore, chiunque l’abbia espressa, finisce per avere la meglio quando raggiunge il consenso di tutti.
Ci spiegate meglio il rapporto che avete instaurato con il testo di Brecht?
Per rispondere a questa domanda bisogna tenere presente che La tercera obra è inserita in una trilogia, chiamato “Trilogia pubblica”. Il progetto ha vinto un concorso nazionale, con il quale abbiamo ottenuto finanziamenti statali. Solitamente, in Cile, i sussidi alla produzione funzionano a progetto: ogni nuovo spettacolo deve fare domanda di finanziamenti. Nel nostro caso, invece, i finanziamenti erano previsti per l’intero progetto, articolato in più spettacoli. Il primo spettacolo era una sorta di melodramma sociale, nel secondo proponevamo una forma di “teatro in versi” ispirato a Cervantes, dove la scommessa risiedeva nell’attualizzazione della lingua dello scrittore spagnolo, mentre l’ultima parte prevedeva lo studio di Brecht. Quando abbiamo cominciato a fare i conti con le idee e la scrittura di Brecht, ci siamo resi conto che non era tanto importante la forma prodotta dal drammaturgo tedesco, bensì il suo “gesto”: Brecht ha portato avanti l’idea radicale di ripensare il teatro e la teatralità. Questa operazione cela forse l’unica idea di politica possibile oggi nel teatro, una politica centrata sui mezzi e gli artifici atti a renderlo efficace. Una politica meno filosofica, se vogliamo, ma molto più al passo coi tempi. Brecht ci insegna che le forme scorrono: i cartelli da lui introdotti oggi sarebbero semplicemente grotteschi, per esempio. E c’insegna che il teatro va continuamente ripensato e ricalibrato, per farlo rivivere nei nostri tempi.
In Europa pensiamo spesso che il teatro sudamericano, solo per il fatto di provenire da un continente più povero, debba per forza parlare di crisi, o avere profondi legami con la situazione socio-politica di provenienza. Come vi posizionate di fronte a questo stereotipo?
Credo che tutto il teatro sia sempre politico, anche nel caso in cui non alluda alla contingenza nazionale. Chiunque esprima opinioni sul mondo, sulla società, sull’essere umano, sta compiendo un atto politico. Ovviamente, il fatto che molto teatro parli della dittatura è un dato naturale, che deriva dalla memoria che ognuno di noi porta dentro di sè. Quello che vorrei sottolineare, però, è che il nostro spettacolo credo non si riferisca nè alla dittatura cilena nè alla Germania di Hitler. Il tentativo che abbiamo fatto è proprio questo, parlare dell’“educazione al timore” senza rimanere ancorati ai dati storici di partenza.
Vuoi provare a spiegarci, in due parole, com’è la situazione a livello teatrale in Cile? Immagino esistano altri gruppi giovani e indipendenti come il vostro...
Posso affermare che in Cile il teatro vive grazie ai gruppi indipendenti. Esistono solo due teatri “ufficiali”, che appartengono alle università: l’Università del Cile e l’Università Cattolica. Queste sono le uniche compagnie “stabili” , ma ciò non significa che il loro lavoro sia interessante. Ripeto: il teatro si sostiene grazie alle proposte dei gruppi indipendenti. Ci sono alcuni gruppi e registi legati al teatro alternativo che lavorano già da parecchi anni, e che sono ormai universalmente riconosciuti: Alfredo Castro, Rodrigo Pérez, Ramón Griffero, e il gruppo “La Troppa”. Questi, più o meno, potrebbero essere definiti i nostri “padri”, quelli con cui ci siamo formati.
Generalmente, per fare teatro ci s’iscrive a scuole specifiche di livello universitario, chiamate “scuole di recitazione”: nonostante il nome, queste strutture formano gli iscritti in maniera totale, spingendo a crearsi un punto di vista proprio su tutti gli aspetti, dalla messa in scena all’uso delle luci. Quando si esce dalle scuole non esistono luoghi per fare vere e proprie audizioni: di conseguenza, si sta consolidando la prassi di formare gruppi con i propri compagni di università, e ciò richiede una formazione a tutto campo!
In Cile esiste un buon numero di gruppi giovani, fra i quali ci siamo anche noi... (risate). Penso che sia presente, in questo momento, un certo fermento teatrale. Si tratta di un contesto teatrale che si sta in un qualche modo riprendendo, dopo tanti anni di dittatura. Sono nate una buona quantità di nuove scuole di teatro, fatto che aiuta la formazione di nuovo pubblico. Durante la dittatura il teatro aveva assunto caratteri molto alternativi: si era costretti a farlo e a vederlo di nascosto. Anche gli spettatori, quindi, si erano rivolti più al cinema o a altre forme di intrattenimento. In questi ultimi anni si è riacceso l’interesse verso il teatro, e le sale hanno i cartelloni già pieni per tutto il 2007.