Spiro Scimone è seduto, in attesa, su una poltrona come quella di un dentista. Si guarda nel riflesso di uno specchietto d’automobile rubato, forse, per strada. Subito Francesco Sframeli entra in scena con la sua faccia da bambino, il sorriso a mezzaluna e gli occhi scaltri, e un’enorme busta sotto il braccio sinistro.
Tutto comincia da quella busta in un tempo ancora precedente la visione; tutto ha inizio da lì e tutto vi si perde: non sapremo mai che cosa ci sia scritto né da dove provenga.
Ma più la storia procede, più gli interrogativi si scatenano incontrollabili nella mente dello spettatore.
Perché un uomo, il nostro protagonista dal volto innocente, è chiamato in commissariato per un reato che non sa di aver commesso? Perché un altro uomo vive dentro un muro, sorvegliato dal fratello che lo tiene a bada con un guinzaglio, senza potersi godere nemmeno un tiro di sigaretta? Perché un altro invisibile uomo viene arrestato e torturato solo per avere un volto sospetto?
Nessuna di queste domande trova risposta, e nessuna di queste risposte ha importanza.
E’ importante piuttosto essere lì, assistere alle torture tra fratelli, osservare l’agonia che sorge dall’attesa a cui è costretto il protagonista. E’ importante accorgersi che il cuoco, figura quasi satanica in questa rappresentazione, il segretario e infine il commissario si compiacciono senza freni della sofferenza dell’estraneo.
Come spesso accade nella cronaca più nera, nelle vicende sostenute da omertà e da accordi illeciti cullati dal potere, anche qui il tentativo di dimostrare la propria innocenza è vano. La giustizia non ha spazio. L’uomo onesto non ha la possibilità di far emergere la propria verità. I buoni perdono anche questa volta.
E allora la scena iniziale è già un avviso: non la sedia di un dentista ma una sedia elettrica quella sulla quale si trova Scimone, e noi del pubblico siamo i testimoni della pubblica esecuzione di un anonimo condannato a morte.
E ancora tutti quegli occhi puntati sulla sofferenza, sulla tortura, riassunti sul finale nell’obiettivo fotografico, altro non sono che la messa in scena di un voyeurismo che ha per oggetto la violenza: internamente alla drammaturgia, infatti, abbiamo sempre un personaggio, il segretario o il cuoco, che infligge del male a un altro, spesso il fratello del segretario, sotto gli occhi di un terzo, Francesco Sframeli; e nel finale quest’ottica si allarga fino a coinvolgere tutto il pubblico.
Sembra esserci anche il richiamo agli esperimenti di Stanley Milgram, esperimenti sull’esercizio della violenza determinato dalla sola possibilità di agire; come nel caso del cuoco, che approfitta della condizione di sottomissione del fratello del segretario per imporre anch’egli un minimo di autorità (violenta) a qualcuno.
L’amarezza della Busta è la stessa di Due amici, ma lo spirito vivo e partecipato della drammaturgia di Spiro Scimone e della recitazione di Sframeli portano la storia su un altro piano.
Sembra infatti che Scimone e Sframeli posseggano uno sguardo obiettivo sull’umano, positivo e negativo. Per questo sguardo che sanno poi farci condividere nelle loro rappresentazioni (ma anche in pellicola o nel testo scritto), i due siciliani si dimostrano testimoni attenti e interpreti puntuali, lettori del presente che portano in teatro scene di pura attualità.
Grazie a loro il teatro sembra essere tornato davvero la lente d’ingrandimento dell’oggi, il punto d’osservazione privilegiato per una comprensione esatta, nella parzialità delle sue narrazioni, della vita e del reale.