Non siamo propensi al culto della personalità, ma quando ci hanno prospettato l’ipotesi di poter intervistare Nekrosius e di poter vedere le prove dello spettacolo, ci sono tremate le gambe. Abbiamo scrutato nella scena e nei retroscena del Faust che debutta stasera al Comunale in prima assoluta, con replica domani, sempre alle 20.30.
Dopo “Le Stagioni”, primo spettacolo di Nekrosius rappresentato sulla scena di Modena nella stagione 2005/2006 allo Storchi, il maestro lituano torna, questa volta sulla proteiforme scena del Festival VIE, con la prima assoluta del Faust. Regista di fama internazionale e rappresentante di un teatro che unisce la povertà della scena a una trama essenziale, fittissima e suggestiva di gesti e azioni di ordinaria quotidianità, Nekrosius è sempre stato accolto o come una nuova rivelazione della scena contemporanea o come un enigmatico artista dalle messinscene contorte e poco chiare. Il regista di Vilnius sceglie i classici e li rappresenta a modo suo, non stravolgendoli, ma neanche osannandoli, tenendoli coperti sotto quella patina spessa, intoccabile, che sa tanto di sindone sacra. La sua versione è quella che ne esce fuori: una lettura, una ricerca, un percorso. Non deve quindi preoccupare se lo spettatore accorto, sfogliando il programma del Festival, tra i tanti spettacoli contemporanei, nuove drammaturgie e nuovi escamotages di messinscena, trova, sotto il nome di Nekrosius, il grande classico della letteratura romantico-tedesca. Scegliendo la prima parte del Faust di Goethe, Nekrosius tesse un percorso che si incastona tra le pieghe del testo e, contemporaneamente, quasi per sinergia, lo dilata: vengono messe a nudo quelle verità che le parole trattengono e svelano.
Non deve quindi stupire la lunga durata dello spettacolo, anche se può spaventare. Andare a teatro per quattro ore e affrontare magari una messinscena oscura se non perfino indecifrabile, non è né piacevole né tantomeno augurabile. Ma se si va a vedere Nekrosius con la consapevolezza che dietro le tante immagini che concretizza sulla scena si possa intravedere la semplicità vera del teatro, con gli oggetti più elementari e i materiali più grezzi che entrano in sintonia con l’attore che li fa suoi, dandogli sempre un senso, allora forse vale veramente la pena di passare quattro ore a lasciarsi stupire dalla sua ‘barbara’ visionarietà. Le sue messinscene non richiedono concentrazione intellettuale e necessità di risolvere dilemmi insormontabili: la forza dei suoi spettacoli è nella semplicità e nei particolari, perché alla fine sono proprio questi ultimi che rimangono impressi e sono le chiavi di lettura delle sue opere. Perché allora non affrontare Nekrosius invece di temerlo? Noi abbiamo deciso di farlo, di andare ad incontrare questo sacerdote eretico della scena mentre fa le prove dello spettacolo, per capire, per stuzzicarlo, e per vedere cosa sia realmente ciò che il regista chiama il ‘cantiere di lavoro’ e il lungo processo che porta alla messinscena finale dello spettacolo.
Alle due siamo al Teatro Comunale di Modena, e ci inoltriamo nel dedalo dei corridoi. Scrutiamo al di là della porta lo svolgersi delle prove, timorosi: ci sembra di assistere a un rito proibito. Poi l’atmosfera finalmente si scioglie, e la gentilissima assistente ci invita ad avvicinarci al palco. Assistiamo a qualcosa di misterioso. Le immagini indecifrabili sulla scena, la dura lingua lituana degli attori e degli assistenti amplificano la sensazione di smarrimento. Nekrosius interrompe poche volte gli attori, siede immerso nella penombra della platea e osserva. In alcuni momenti, sono gli attori che interrompono la prova, scambiano brevi battute con gli assistenti: l’impressione è che stiano prendendo confidenza con lo spazio del teatro che ospiterà lo spettacolo. Poi, con la disinvoltura di chi sa cosa deve accadere e sa cosa significa ricominciare, continuano a provare.
Il gioco in cui si entra, osservando i frammenti di spettacolo, è quello di tentare di allacciare le immagini al testo: cosa non facile. Forse non è neanche il migliore, sarebbe meglio lasciarci guidare dalle immagini che ci incantano. E’ una lotta tra l’ansia di seguire il filo del racconto e il potere delle metafore di farlo espandere, farlo diventare altro. Ostinati a cercare il testo, alla fine ci si abbandona alle immagini. La scena è dominata da grandi coni scuri dai riflessi dorati, il colore di fondo non è il nero, è la tenebra. Tenebre striate di luce, una luce minima, fatta di riflessi, di dorature, del tenue lume di una candela. Non diremo di più. Abbiamo avuto la fortuna di assistere ad un frammento del lavoro di Nekrosius, e come lui anche noi taceremo. Vedremo lo spettacolo, rivedremo i frammenti cui abbiamo assistito e forse riusciremo a collocarli sul filo della narrazione. Ma noi li abbiamo visti in una condizione particolare, come quando si guarda un vecchio film azzerando il volume: ogni immagine, ogni dialogo oscilla tra la pura forma e l’esplosione dei mille significati possibili.
Pausa: le prove si fermano. Ci avviciniamo al regista di Shakespeare e di Cechov, al creatore di fama internazionale. Non è facile essere lì: sentiamo le farfalle allo stomaco. Il regista di Vilnius, insieme alla sua compagnia Meno Fortas, affronta uno dei testi più prolissi e ricco di metafore della fervida letteratura tedesca. Sappiamo che a Nekrosius non piace addentrarsi nei sotterranei del dramma scritto, ma piace portarlo direttamente in scena modificandolo: “Era necessario tagliare il Faust, non poteva essere altrimenti. Ho cercato comunque di rispettare il pensiero di Goethe, ho sempre cercato di essere molto attento nella messinscena del testo, scavandolo e creando un mio percorso, ma non mi prendo la responsabilità di fare della mia interpretazione l’unica possibile. La mia è solo una ricerca personale all’interno dell’estenuante ricerca che, sia l’autore scrivendo il dramma, sia Faust cercando di valicare i limiti dell’essere umano, hanno fatto”. Il maestro, con il suo sguardo glaciale, inutile nasconderlo, mette soggezione. Ma, una volta formulata la domanda iniziale, anche lui sembra mettersi comodo sulla poltroncine rosse lasciate nella semioscurità. Tutto vestito di nero, cupo, con gli occhi pensierosi, attenti e una voce baritonale che richiama subito l’attenzione. Non si dilunga in cervellotici discorsi sul perché e per come, non gli piace disquisire sul suo lavoro, ma alle nostre domande dà sempre una risposta, concisa, ma illuminante. Così quando gli chiediamo che differenza c’è tra la tragedia di oggi e quella di ieri, lui semplicemente ci risponde che la tragedia riguarda il destino dell’uomo, quella di ieri aveva un senso ieri, quella di oggi ha un senso oggi. Questo è Nekrosius: un fabbro che modella il testo secondo la sua personale ricerca. Un uomo che sa portare alla luce della ribalta il senso intimo delle parole di un testo poetico che non appartiene più a noi, ma che ha ancora molto da dire: “La poesia è la più alta espressione del sentimento e dello spirito umano, di quello spirito che è in tutti noi”. Nekrosius fa di Faust non l’eroe goethiano che è partito dal mito greco per arrivare alle correnti tumultuose della drammaturgia romantica, non un pedante scienziato insoddisfatto e a volte malato di manie di grandezza: “E’ in ognuno di noi che c’è un piccolo Faust, un piccolo investigatore che cerca la sua strada tra le mille possibili”.
Ora aspettiamo che il sipario si apra, su questa scena di coni ramati espressionisti, su questi dialoghi tra Faust e Mefistofele, su questi riflessi e tintinnii di frammenti di specchio, con la consapevolezza che il temerario eroe goethiano non ci deve far paura, perché ora siamo sicuri che quello che vedremo non è un Faust tanto lontano da noi, ma è, ‘metaforicamente’ parlando, quella sorta di spinta interiore che ci porta a continuare a cercare, cercare, cercare.