Le vostre produzioni più recenti, la Tragedia Endogonidia in primis, si sono soffermate molto sullo studio percettivo della luce e dell’immagine. In Conferenza muta, invece, è il suono che si fa protagonista. Siamo di fronte a una dimensione originale o alla parte integrante di un percorso?
In questo caso specifico la Conferenza, oggi alla sua terza replica, è nata da un progetto di Letizia Renzini, che poi mi ha coinvolto. Il suono tuttavia non ha mai svolto nella Societas un ruolo gregario, basti pensare alla collaborazione stabile con Scott Gibbons, ormai parte del nostro nucleo artistico. Si è sempre trattato di concepire il suono come una figura, una forma, una massa. E’ un problema di idee, ancora una volta. Si tratta di una concezione del suono che fugge la colonna sonora. Il suono è un corpo illuminato, entra ed esce in scena come lo può fare un attore. Le funzioni non sono distinte. In termini illuminotecnici potremmo parlare della luce come contenitore di un segreto sonoro. Il suono ha un suo peso, è una cosa. In teatro questo è centrale, i vocaboli devono poter mischiare tutte le parti, girare alla stessa velocità per produrre un onda emotiva. Le tecniche impiegate devono perciò diventare visibili. Insieme a Letizia si è creato una sorta di dialogo-scontro tra e con i suoni, che tuttavia a Carpi non ha funzionato, non è accaduto nulla.
Come mai? E’ mancata la ricezione del pubblico?
No, no, il pubblico non c’entra. E’ stato un problema mio e di Letizia, è cominciata a rilento, non c’è stata intesa.
Si è parlato di luce. All’opposto nella Conferenza il pubblico viene chiamato a indossare una piccola maschera e a confrontarsi con il buio…
Sì, ma non era obbligatorio. Non credo che la cosa più interessante sia la chiusura degli occhi. Ci sono piuttosto suoni, correnti di forme che vogliono rivolgersi allo spettatore. Fare sì , come direbbe Deleuze, che il corpo intero venga attraversato dalla sensazione. E’ un lavoro diverso rispetto alla parola tragedia, che è portatrice di una disciplina, un’architettura in cui tutti possono riconoscersi. Ora si decide di operare su un piano orizzontale, una fase di lavoro aperta al panorama delle forme, peraltro molto più lunga e dispendiosa. Qui ci sono voluti mesi per cinquanta minuti di spettacolo, con la tragedia invece è bastato molto poco. Un’enorme parte di questo lavoro non sarà vista…una grande massa, per comunicare gesti, che sono sempre troppi…è un togliere.
Verso cosa stiamo andando?
Non lo so. Non so verso che cosa. Anche Hey girl!, il nostro ultimo spettacolo, non è un lavoro finito. A Modena vedrete il secondo passaggio prima del debutto a Parigi. Diverrà successivamente un dittico in cui ad Hey girl! seguirà un Hey boy!, che, non ho dubbi, sarà completamente diverso. In Hey girl! non c’è metodo, abbiamo cercato di comprendere fino in fondo il titolo e capire dove voleva portare. Un saluto per strada, icasticità, forma d’annunciazione…quello che è successo non posso dirlo, non lo so. Non c’era nulla, solo il titolo. Il giorno delle prove, di fatto, nulla da fare. Questa è stata una novità che ha cambiato le modalità del mio approccio verso il teatro. Prima sono sempre partito da una struttura precisa, concependo le prove non come un momento di creazione ma piuttosto di resistenza, più corte erano meglio erano. In questo senso Hey girl! è stato un esperimento. Il prossimo Hey boy!, potrebbe invece avere bisogno di una struttura forte fin da subito, sono sicuro... ripeto, saranno due lavori molto diversi. Per il futuro è importante non avere progetti. Bisogna avere idee, non progetti.
Lasciare spazio per lasciare spazio alle cose di accadere?
Sì, in un certo senso. Ma non è un lavoro spontaneistico. E’ necessario aprire e chiudere in continuazione. Puntare su cose che hanno nucleo e forza oggettiva.
Tornando ancora alla Conferenza, le pongo un’ultima domanda da spettatrice. In quest’opera veniamo catapultati in un universo molteplice, un flusso di suoni che procedono a frammenti. Quel che ne resta è un profondo senso di solitudine, in cui lo stupore perde nella quantità i suoi punti di orientamento…Come dunque rapportarsi a tutta questa quantità? Cosa scegliere tra la tortura e l’abbandono?
La quantità è immagine stessa dello spettacolo del mondo e inevitabilmente genera panico. Qui però il suono vuole essere il letto di un fiume che trasporta tra la quantità lo stesso spettatore, che si ritrova come una cosa che rotola tra le altre e ne viene travolto. Melodie, ritmi, rumori di origine biologica e meccanica sono panorama dei fenomeni del nostro mondo, che ruotano come in una rotativa. E’ tutta una questione di montaggio, se la sequenza non è esatta fallisce. A Carpi, come dicevo, il tentativo è fallito. A Roma invece è emerso un senso di necessità, un camminare che ha creato un’esperienza. Sono cose che capitano quando si manipola qualcosa di fragile.
Come la realtà?
(sorride) No, la realtà non è affatto fragile.